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Il mondo ha un problema con la donazione di vestiti

La strana questione della beneficenza alle vittime degli incendi di Los Angeles

Il mondo ha un problema con la donazione di vestiti La strana questione della beneficenza alle vittime degli incendi di Los Angeles

Gli incendi scoppiati all'inizio di gennaio a Los Angeles hanno dato il via a una generosa ondata di beneficenza per assistere le vittime, alimentata soprattutto dalle campagne su TikTok e dai centri di donazione. Questi centri, spesso allestiti rapidamente nei parcheggi come soluzioni improvvisate, si sono ritrovati sommersi da merci di ogni tipo. Se inizialmente ci si aspettava che arrivassero principalmente beni di prima necessità come lenzuola, coperte, giocattoli e carta igienica, la realtà è stata ben diversa: è stata donata un’enorme quantità di abiti usati. Probabilmente mosse dalle migliori intenzioni, molte persone hanno risposto all’emergenza svuotando i propri armadi. Tuttavia, la maggior parte di questi capi sono di bassa qualità, frutto della produzione del fast fashioninutilizzabili e la maggior parte finisce in discarica. Questo ha portato numerosi centri di raccolta a prendere la decisione drastica di smettere di accettare abbigliamento usato. La situazione è diventata così ingovernabile che anche le creator che avevano avviato le campagne di donazione si sono trovate a dover rifiutare i vestiti ricevuti, invitando piuttosto ad inviare denaro con cui si possano comprare oggetti utili. L'organizzazione Open Closit ha pubblicato un post su Instagram, specificando chiaramente quali articoli sono veramente necessari. Ma quindi qual è la fine di tutto ciò che viene donato?

Questa situazione è indubbiamente lo specchio di un consumismo sfrenato, ma viene anche da chiedersi se nelle intenzioni dei donatori ci sia di più. Oltre ad essere tra i metodi migliori per liberare il guardaroba quando si ha bisogno di più spazio, quando si fa beneficenza si pensa ottimisticamente alla potenziale nuova vita che si regala al proprio vestiario. Forse è proprio questo il motivo per cui si ripone così tanta fiducia sia nei negozi dell’usato che in app come Vinted o Vestiaire Collective. Solo una minima parte di ciò che si dona viene realmente utilizzato o venduto, il resto diventa parte di un meccanismo invisibile che si trova dall’altra parte del mondo. In una situazione speculare a quella attuale di Los Angeles, immerso sotto 15 tonnellate di vestiti donati, si trova Kantamanto, il più grande mercato di vestiti di seconda mano di Accra. I vestiti donati, infatti,  arrivano in Africa dai paesi del nord, Europa ed America, e qui rivenduti.  La co-fondatrice della non-profit The Or Foundation, Liz Ricketts - come riportato su Business of Fashion- ha fatto presente come doversi interfacciare con magliette macchiate o indumenti intimi non lavati rappresenta la normalità per chi lavora nella catena di fornitura dell’usato a Kantamanto. 

@maryna_bogdan Turn up at your local donation center #lafires #fire #losangeles take a moment to breathe. - normal the kid

Kantamanto è diventato un simbolo globale del commercio di seconda mano, con i suoi grandi sforzi di vendita, upcycling e rivendita, ma anche per le immagini suggestive dei rifiuti tessili inutilizzabili che inquinano l’acqua e le spiagge. Davanti ad uno scenario del genere, bisogna inevitabilmente interfacciarsi col problema dell’enorme volume di vestiario prodotto nel nord del mondo e di quanto non ci siano strutture preparate per gestirne adeguatamente lo smaltimento. Oltre a ciò, di come a circolare siano di prodotti di qualità molto bassa complice l’ascesa del fast fashion e della sua spinta grazie ai social media. Ad inizio dell’anno il mercato africano ha dovuto interfacciarsi con un incendio che ha devastato gran parte dei suoi prodotti e messo in ginocchio le sue strutture precarie. Il direttore creativo di The l’Or, Daniel Mawuli Quist, ha sottolineato a Vogue Business l’importanza di ricostruire velocemente il mercato: «Il modello di riutilizzo e riciclo di abbigliamento del mercato Kantamanto offre un esempio potente di moda sostenibile in azione, evidenziando il potenziale delle iniziative locali per guidare il cambiamento globale». Viene da chiedersi se non sia il caso di ripensare le abitudini, in una realtà in cui i brand, sia  del fast fashion che non, producono ad una velocità smisurata, e sicuramente più di quanto riescano a vendere. Acquistare di meno, scegliere con più cura ed incentivare un modello di moda sostenibile e circolare. Andare alla radice del problema e riporre fiducia nella Gen Z per un cambio di paradigma, è un’utopia o sarà davvero possibile?