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Trump, Arnault e la moda “Made in Texas” Il lusso resterà sempre italiano, ma a che serve la gloria senza il denaro?

Il ritorno dello spettro dei dazi negli scambi transatlantici rischia di colpire in pieno il cuore produttivo dell’Italia: il suo export. Con l’imposizione unilaterale da parte dell’amministrazione Trump di tariffe del 15% su tutte le merci importate dall’Unione Europea, si riapre una stagione di tensioni commerciali che potrebbe avere effetti devastanti per il made in Italy, specialmente nel settore moda e lusso, da sempre pilastro dell’identità manifatturiera nazionale. Certo, come specifica WWD, l’accordo, percepito come un male minore rispetto all’iniziale prospettiva di tariffe al +30%, è ancora in fase preliminare, con solo un 50% di probabilità di finalizzazione. Ma mentre colossi come LVMH si attrezzano aprendo stabilimenti negli Stati Uniti, le imprese italiane rischiano di essere schiacciate tra vincoli geopolitici, costi doganali in crescita e perdita di competitività internazionale. Non sorprende che Bernard Arnault abbia difeso l’accordo. «In qualità di responsabile di un'azienda europea di livello globale», ha scritto Bernard Arnault in un op-ed su Les Echos, «ritengo che fosse importante evitare una crisi. Questo accordo è un atto di responsabilità. Nell'attuale contesto geopolitico ed economico, è un buon accordo. [...] La Commissione non ha raggiunto un accordo perfetto, ma ne ha ottenuto uno necessario. Protegge gli interessi essenziali, evita un confronto aperto e mantiene una base di stabilità». Le tariffe non sono solo teatro politico: colpiscono settori chiave dell’economia continentale e hanno come bersaglio implicito le eccellenze produttive dell’Europa meridionale, con l’Italia tra le più penalizzate. Dal prêt-à-porter alle collezioni di alta moda, dalla pelletteria agli accessori, l’intero sistema export italiano (che, secondo l’Agenzia ICE italiana, vale oltre 600 miliardi di euro all’anno) è esposto. Secondo un rapporto di Confindustria, un dazio anche solo del 10% si sarebbe tradotto in una perdita di 20 miliardi di euro e circa 118.000 posti di lavoro. Con il 15% effettivo, il conto sale ben oltre i 30 miliardi e sfiora i 180.000 occupati in meno. La «guerra commerciale che non conviene a nessuno», come l’aveva definita mesi fa Giorgia Meloni, non è una guerra: è stata a tutti gli effetti la capitolazione di un’Europa che ha sempre meno scelte e leve di potere nei confronti dell’imperialismo USA. E gli effetti potrebbero essere un terremoto per il made in Italy e in particolare per il settore dell’abbigliamento e della moda di lusso, già in crisi, storicamente orientato all’esportazione verso gli Stati Uniti.

Arnault e la moda "Made in Texas"

Per capire cosa potrebbe succedere o, comunque, dove tiri il vento per la produzione italiana di abbigliamento e moda, il caso LVMH è emblematico. Bernard Arnault, il CEO del colosso del lusso francese, ha scelto una strategia pragmatica per difendere i propri interessi: spostare parte della produzione negli Stati Uniti. Dopo il laboratorio di pelletteria Louis Vuitton inaugurato in Texas nel 2019 alla presenza dello stesso Donald Trump, in un’intervista al WSJ degli scorsi giorni Arnault ha annunciato l’apertura di una seconda fabbrica entro il 2027, sempre in Texas. L’obiettivo è chiaro: aggirare i dazi garantendo la presenza manifatturiera sul suolo statunitense, pur mantenendo l’identità visiva e il pricing europeo. E tutto questo nonostante il fatto che il primo tentativo di “americanizzare” la produzione del lusso sia stato, più o meno, una mezza catastrofe. A sei anni dall’apertura, riportava Reuters lo scorso aprile, la fabbrica era tra gli stabilimenti LVMH peggio performanti del mondo, con un tasso di spreco del cuoio del 40% ovvero il doppio del tasso di spreco medio di una fabbrica di pelletteria nel resto del mondo e solo 300 dipendenti, molto al di sotto dei 1000 ipotizzati da Arnault nel 2019.  Negli anni, stando agli intervistati della pubblicazione, le cose sarebbero leggermente migliorate anche se lo stesso direttore della produzione internazionale del brand (che produce in Francia, Italia e Spagna) ha in effetti ammesso che moltissimi lavoratori che arrivano alla fabbrica sono privi dell’attenzione al dettaglio e dello scrupolo richiesto dal brand. Inoltre, già nel 2017, LVMH aveva ottenuto agevolazioni fiscali ottenute dal governo, tra cui un taglio del 75% sulla tassa di proprietà per 10 anni, per un risparmio stimato di 29 milioni di dollari.  
 

Nonostante queste difficoltà, in cui si è infilata anche la pandemia e la crisi del lusso globale che ha portato i profitti netti del gruppo a calare del 22% nei primi sei mesi dell’anno, LVMH ha proseguito i suoi investimenti in Texas. La prima fabbrica a stelle e strisce è costata circa 30 milioni di dollari, mentre una seconda, completata nel 2023, è stata valutata 23,5 milioni di dollari. Intanto, uno dei due stabilimenti californiani dovrebbe chiudere entro il 2028, e ai lavoratori è stato chiesto di trasferirsi in Texas o lasciare l’azienda. Negli ultimi mesi, Arnault, consapevole della delicatezza del momento, ha intrapreso una campagna diplomatica personale per spingere i governi europei a siglare un’intesa con Washington. Ha incontrato Meloni, Merz e Macron, parlato più volte con Trump e si è esposto anche pubblicamente presenziando all’insediamento di Trump e dichiarando le proprie intenzioni in interviste come quella del WSJ di cui sopra. Nonostante la crisi, il clan degli Arnault continua ad acquistare proprie azioni sul mercato, segno della fiducia della famiglia nella ripresa del business. Ma questo ottimismo è sostenuto da mosse difensive molto concrete come diversificazione geografica della produzione, lobbying costante e relazioni trasversali tra mondo imprenditoriale e politico. Ma se Arnault, al di là di come si possano interpretare le sue scelte, va avanti da privato in questo senso dovremmo forse iniziare a chiederci perché la produzione del lusso, specialmente nel nostro paese, stia restando indietro. Trump ha già dichiarato di voler vedere più fabbriche europee negli Stati Uniti, e il sottotesto è chiaro: o investite qui, o pagate il prezzo pieno.

E in Italia?

In Italia, tra una reazione istituzionale tutto sommato blanda e la marginalizzazione del tema nei dibattiti pubblici, il rischio reale per il settore della moda non è materiale (sarebbe impensabile riscrivere le rotte delle supply chain mondiali, al di là della mancanza di infrastrutture e artigiani oltreoceano)  ma di posizionamento: si rischia cioè che il made in Italy diventi, agli occhi del consumatore americano e globale, meno conveniente e progressivamente sostituibile. Il che non è tanto un problema per i brand ultra-lusso, i cui clienti sono semplicemente così ricchi che il prezzo non è mai un problema, ma per quelli la cui esposizione è stata nel mercato aspirazionale e che ora sono esattamente i brand in maggiore perdita. Secondo BoF, il nuovo dazio del 15% richiederà un ulteriore aumento dei prezzi del 2% negli USA o 1% a livello globale per mantenere l’equilibrio, ma ci sono limiti alla possibilità di aumentare ancora i prezzi senza perdere clientela: il settore ha perso 50 milioni di clienti nel 2024 secondo Bain per effetto della fatica da prezzi alti e della debolezza della domanda anche se, secondo una recente analisi di Gam pubblicata su MF Fashion, i consumatori di lusso americani spenderanno un +2% in beni di lusso nei prossimi mesi e viaggiando potrebbero spendere ancora di più: secondo la medesima analisi acquistare beni di lusso a Milano può far risparmiare il 30-35% rispetto a New York ma il risparmio supera il 40% se i dazi entreranno effettivamente in azione. 

@euronews.tv

European Commissioner Maroš Šefčovič has defended the EU-US trade deal struck between Ursula von der Leyen and Donald Trump amid mounting criticism of its lopsided nature. "This is clearly the best deal we could get under very difficult circumstances," Šefčovič said on Monday. #deal #tariff #trade #EU #USA #Trump

son original - Euronews

Brunello Cucinelli parlando al Financial Times ha incolpato i grandi gruppi francesi per il modello insostenibile della moda commerciale che oggi sta divorando l’intero Made in Italy dall’interno: «Se si guardano i bilanci delle grandi case di moda italiane di 20 anni fa, i profitti erano tutti intorno al 10%. Poi sono arrivati i gruppi francesi e i numeri sono saliti alle stelle. Siamo gli unici a realizzare ancora un profitto del 10%. Molti altri marchi hanno raddoppiato i loro profitti netti, il che significa che i ricavi sono aumentati di molte volte. E non c'è nessun trucco magico, questo può avvenire solo aumentando la produzione e i prezzi e tagliando i costi. E questo è possibile solo se si subappalta la produzione ad aziende cinesi che hanno la capacità di produrre migliaia di borse e di venderle a 50 euro l'una. Ma poi la notizia finisce sui media e i nostri ricchi clienti si sentono ingannati e smettono di acquistare... Si può biasimarli?» Parlando a MF Fashion, Flavio Cereda di Gam ha descritto un simile fenomeno: «I consumatori cinesi restano una fascia benestante, con risparmi significativi. Il problema è quando e dove spenderanno. Non è in atto un ripensamento strutturale, ma si sta verificando uno spostamento della domanda. L’incertezza economica ha ridefinito la percezione del valore e per alcuni marchi la proposta semplicemente non è più allettante».

I rischi di un decentramento

@sara_insidefashion #sostenibilità #manevalelapena #abbigliamento #madeinitaly suono originale - saraheyfooreal

Sempre Cucinelli, intervistato da Bloomberg in aprile, ad esempio, si era detto molto sereno a riguardo – come nota l’autore dell’articolo i clienti veramente ricchi, quelli su cui la moda si sta concentrando oggi, non temono recessioni o guerre commerciali. Ma avere la propria base tra gli ultra-ricchi, comunque, mette al sicuro un manipolo di forse mezza dozzina di brand. Tutti gli altri invece? Se l’accesso al mercato USA diventasse proibitivo, o condizionato alla produzione locale, il modello stesso della produzione di alta gamma europea potrebbe vacillare? Il lusso europeo si è sempre basato sull’esclusività, sull’origine territoriale, su competenze intergenerazionali e know-how locale. Spostare le linee di produzione significa tradire questa promessa e rischiare di trasformare un mercato del desiderio in una replica industriale. D’altro canto, però, il prezzo finale delle borse Louis Vuitton “texane” non sarebbe diverso da quelle europee – cosa che, quando si dovrà determinare il prezzo, creerà forse qualche confusione.

L’equilibrio è sottilissimo, anche se nell’era dello scam, lo stesso concetto di Made in Italy è stato danneggiato da individui senza scrupoli che hanno sub-appaltato la produzione a sweatshop cinesi sul territorio italiano, dando vita al “Made in Italy washing” che Roberto Saviano denunciava in Gomorra già nel 2006. Negli ultimi sei mesi, ci sono stati cinque casi di aziende messe in amministrazione giudiziaria in Italia per aver sub-appaltato la produzione dei propri costosi prodotti a sweatshop cinesi che li fabbricavano per pochi spiccioli rispetto al devastante prezzo di retail, due di questi brand erano del gruppo LVMH. Il decorso abituale di questi casi è sempre un nulla di fatto: il brand salva la faccia perché può legalmente dichiarare di non sapere cosa succedesse nelle “fabbriche” e incolpare l’appaltatore di turno, scaricandogli la colpa. Ma le segnalazioni che abbiamo di questa pratica, da Gomorra fino a un’inchiesta de Il Sole24Ore del 2019 e ai casi del 2025 dimostrano che questa pratica è la norma in un sistema che in nome del profitto non ha tradito solo la fiducia dei consumatori ma il Made in Italy stesso. Forse è per questo che Arnault, per cui di sicuro l’annuncio ufficiale dei dazi al 15% non sarà stato una sopresa, sta scommettendo sull’espansione in Texas pur ammettendo che il primo esperimento produttivo ha mostrato evidenti criticità – altre maison stanno alla finestra, in attesa di vedere se davvero il futuro del lusso europeo passerà per le fabbriche texane. Ma l’intera vicenda dei dazi non è solo un problema per i big del lusso: è un banco di prova per la tenuta del modello manifatturiero europeo. Se la moda italiana non sarà tutelata da scelte politiche chiare e coraggiose, il rischio è quello di perdere l’unico vero vantaggio competitivo: la capacità di trasformare il saper fare artigiano in identità culturale globale. La vera sfida non è aggirare i dazi, ma difendere culturalmente, economicamente e politicamente il significato stesso di made in Italy, prima che non ne resti più nulla.