
La fine dell’era dell’all-caps logo Come i loghi del lusso stanno cambiando di nuovo
È circa dal 2018 in avanti che si parla di “blandification” nella moda, riferendosi alla tendenza dei grandi brand di moda a semplificare graficamente i propri loghi. Storicamente fu Hedi Slimane a inaugurare la tendenza, cambiando nel 2012 il nome di Yves Saint Laurent in Saint Laurent Paris, con un nuovo logo sans serif – ma ben presto chiunque altro lo seguì. Burberry, Fendi, Balenciaga, Balmain, Ferragamo, Zegna, Givenchy: che si trattasse di una semplificazione grafica per rendere il logo leggibile sugli schermi dei telefoni e nelle icone dei social media, che si trattasse di un rebranding volto ad alleggerire il nome del brand e rendere più agile l’awareness, che si trattasse del simbolo di una moda sempre più conformista, la “blandification” pareva essere ovunque. Diciamo “pareva” perché oggi le cose sembrano cambiate di nuovo: Saint Laurent è tornato a usare già da qualche tempo il vecchio font graziato per il suo nuovo nome, anche Burberry ha un nuovo logo dal ritorno di Daniel Lee, mentre sui maglioni di Dior del debutto di Jonathan Anderson è tornato ad apparire il logo in minuscolo che c’era un tempo. Similmente dall’arrivo di Pharrell Williams anche i loghi di Louis Vuitton hanno iniziato a espandersi e moltiplicarsi in un vasto range di monogrammi e font alternativi al classico logo tradizionale che è rimasto nell'interno degli abiti e in molto del branding; e già da Celine, con Michael Rider, sono tornati i vecchi monogrammi con la “C” su sciarpe e borse – anche se il nuovo logo stabilito da Slimane tempo fa è rimasto il medesimo, e sicuramente lo rimarrà ancora. Ma come mai?
La graduale evoluzione dei loghi nella moda corrisponde, più o meno, alla chiusura del ciclo della democratizzazione del lusso terminato, almeno simbolicamente, con il lockdown e la scomparsa di Virgil Abloh, che dell’accessibilità (almeno culturale) della moda aveva fatto un punto quasi programmatico del proprio lavoro. Questa democratizzazione aveva allargato il terreno di gioco della moda – terreno che però adesso si sta restringendo, come si può vedere dal rapido e progressivo decadimento e più o meno dichiarata caduta nell’oblio di tanti brand di moda sorti negli anni ’10 e il calo di fatturato di brand che avevano fatto grandi fortune sfruttando la propria base di clienti aspirazionali che, oggi, è stata quasi del tutto abbandonata. Con la crisi (i report più ottimistici parlano di “stabilizzazione” o “normalizzazione”) dei ricavi della moda commerciale, però, ci si è accorti del problema: se tanti brand che competono per l’attenzione di una singola fascia utenti si somigliano troppo tra loro, sarà impossibile distinguerli e, dunque, preferirne uno o un altro. In altre parole, il lusso ha forse capito che è il momento di tornare ad avere una propria personalità e un’identità riconoscibile, anche meglio se nostalgica. E la prima maniera di operare questo cambiamento è proprio aggiornare il proprio logo, distinguendolo dalla schiera di altri loghi tutti maiuscoli e in Sans Serif.
Burberry unblands its brand, deciding to hold on to 120 yrs of equity in their logo.
— Ethan Decker (@ehdecker) May 31, 2023
Prorsum! pic.twitter.com/Z9nRpqdqiR
Il cambiamento che oggi vediamo solo accennato prenderà effettivamente piede? Per capirlo servirà certamente attendere, ma sembra parecchio indicativo che questo fenomeno stia prendendo forma proprio a ridosso della stagione del grande rinnovamento creativo già avviata con i debutti di Jonathan Anderson, Michael Rider e Glenn Martens e che si chiuderà con il debutto di Demna daa Gucci nel prossimo marzo. È una fase in cui non solo stanno cambiando le direzioni creative, ma anche molti dei manager e dei CEO, oltre che strategie produttive, comunicative e distributive. Un momento di generalizzato rinfrescamento di cui proprio i loghi tutti maiuscoli e “blandificati” del passato potrebbero fare le spese. Di tutti i complessi meccanismi che determinano la vita di un brand, proprio il logo, in fondo, è l’espressione più pubblica e personalizzabile – ed è ormai chiaro che se il lusso itende sopravvivere dovrà chiarire la propria identità anche a se stesso.














































