A Guide to All Creative Directors

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Cosa pensano gli studenti italiani di moda di quello che gli insegnano?

Spesso l'Italia dimentica che la moda è anche creativa

Cosa pensano gli studenti italiani di moda di quello che gli insegnano?  Spesso l'Italia dimentica che la moda è anche creativa

Abbiamo chiesto a studenti e studentesse italiani, formatisi in corsi universitari di moda tra Milano e Venezia, cosa ne pensano del tempo dell’insegnamento in Italia: se sentono che le scuole preparino davvero a diventare creativi, se il percorso sia strutturato per costruire un linguaggio personale, se la consapevolezza del proprio ruolo culturale arrivi subito o troppo tardi. Le loro risposte raccontano le criticità di un sistema che fatica a evolversi e a competere con modelli internazionali. La creatività italiana sembra vivere di riflesso, ancorata a un’immagine estetica rassicurante – tra piatti da cartolina, richiami rinascimentali e miti sbiaditi della moda che fu – convinta che basti ancora a renderci rilevanti nel mondo. Ma non è più così. Oggi serve raccontare la complessità, non rifugiarsi nei cliché visivi costruiti da cinema, comunicazione e branding. La moda italiana, del resto, è diventata grande anche grazie a strategie comunicative nate altrove – basti pensare al ruolo dell’America nel valorizzarla nel dopoguerra – e la nostra tradizione gastronomica, oggi patrimonio globale, è frutto di contaminazioni, non solo di storie locali. Questa tendenza alla semplificazione si riflette anche nei luoghi dove si insegna design, dove spesso manca un racconto stratificato, aperto a nuove tradizioni.

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Il sistema formativo appare più datato che autorevole. Non solo per i contenuti, ma per il modo in cui pensa la moda: una professione da seguire, più che uno spazio progettuale da esplorare. Mentre in Italia il Ministero dell’Istruzione ha riconosciuto la progettazione moda come corso universitario solo nel 2004, collocandola tra arti visive, musica e spettacolo, in UK i corsi di Fashion Design erano istituzionalizzati già a metà Novecento, e nel 1974 nasceva il London College of Fashion. La distanza è prima culturale, poi cronologica; non è questione di ritardi, ma di visione. In Italia si formano, anche nei migliori contesti, più dipendenti pronti a trasferirsi all’estero che progettisti capaci di creare un proprio linguaggio. Questo deriva anche dal modo in cui la moda viene percepita nel nostro Paese. Come sostiene il sociologo Paolo Volonté, la moda in Italia si legittima più attraverso una «cultura della vestibilità» che tramite l’arte o la ricerca. L’abito è pensato per servire, non per esprimere. Il designer è spesso visto come una figura tecnica, che «si ritira nell’ombra» per non interferire con le logiche del mercato. Una visione che spiega perché molti giovani creativi cerchino prima un brand a cui appoggiarsi, piuttosto che una voce da sviluppare.

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Attraverso le testimonianze anonime di studenti e giovani designer tra i 22 e i 26 anni, formatisi in corsi triennali e magistrali, tra scuole pubbliche e private da Venezia a Milano, abbiamo cercato di capire se durante il loro percorso fosse stato chiaro, anche prima della prospettiva lavorativa, che la loro figura potesse avere un impatto culturale. O. C. ha raccontato che non le «è mai stato fatto notare in modo esplicito, ma è una cosa che ho iniziato a realizzare personalmente l’ultimo anno, sperando che quello che farò abbia un impatto culturale». La sua risposta mostra come la scuola non abbia stimolato una riflessione attiva su questo tema, che altrove è parte integrante fin dall’inizio del percorso formativo. Anche la struttura frammentata dei corsi rallenta la costruzione di una visione coerente. In scuole come la Central Saint Martins, ogni studente lavora fin dal primo giorno su un progetto che culminerà nella collezione di fine anno. In Italia invece, racconta L. G., 22 anni, «Per come sono strutturati alcuni laboratori, spesso si riparte da zero. Non c’è un reale collegamento con i progetti precedenti. Raramente si lavora in continuità e non è prassi confrontarsi con i docenti sul percorso fatto. È lo studente che deve portare avanti da solo la coerenza progettuale».

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A rendere tutto più complesso è anche la differenza tra chi studia moda e chi si occupa di arti visive. P.U., 25 anni, dice che i suoi progetti, «soprattutto nel corso magistrale, devono produrre oggetti vendibili, indossabili. Oggetti che si introducono nel quotidiano attraverso l’uso. Capisco che la moda sia commercio, ma in fase di studio queste restrizioni possono risultare limitanti». La sua analisi mette in evidenza come l’approccio al design in Italia sia fortemente orientato al mercato anche in un contesto libero come quello universitario, dove ci si aspetterebbe maggiore libertà sperimentale. Infine, C. K., 25 anni, aggiunge «di aver scoperto da sola la mia pratica personale. L’università non ti prepara davvero a sviluppare il tuo marchio. Sapevo che mi stavo formando per lavorare, e così è stato. Il mio linguaggio arriverà, ma tra qualche anno». Anche in questo caso, emerge una preparazione che guarda più all’inserimento in azienda che allo sviluppo di una poetica progettuale. La propria voce, se arriva, arriva dopo. Forse la questione è anche culturale: l’idea italiana del tempo lento e riflessivo, che da un lato permette profondità, dall’altro ci fa arrivare dopo. E quando si incontra chi si è formato in ambienti anglofoni, si avverte quel distacco: loro sono già pronti a costruire il presente. Noi stiamo ancora cercando da dove partire.