FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

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Che fine ha fatto la desiderabilità della moda? Di Antonio Dikele

In un momento in cui la crisi del lusso e della creatività stanno facendo sembrare la moda priva di significato, ai consumatori è tornata la voglia di desiderare qualcosa per il puro gusto di averla, ma anche per assomigliare agli altri che ce l’hanno. Manca il vero oggetto capace di polarizzare i desideri e la cultura popolare, il magnete dell’attenzione e della modernità. È in questo contesto che si inseriscono micro-status symbol come i Sonny Angel, i Labubu, i portachiavi di Hello Kitty e altro qualsivoglia ninnolo colorato: disponibili a un prezzo ben più accessibile di un qualsiasi altro portachiavi firmato, ma pur sempre in-demand e riconoscibili, questi accessori rappresentano la nuova frontiera della hype culture, l’anello mancante di un circolo vizioso che, partito dalle collaborazioni di Virgil Abloh, ha portato quasi direttamente allo scenario che conosciamo oggi, fatto di prodotti celebri ma quasi comicamente inaccessibili e di brand che vedono i negozi svuotarsi di clienti aspirazionali. I tempi in cui la moda attraeva masse di giovani dialogando con i protagonisti della loro cultura paiono ormai remoti, ma la questione della desiderabilità come motore della fashion industry non è una novità: quante volte, da ragazzini, volevamo acquistare qualcosa per il puro bisogno di assomigliare ai nostri coetanei? Quante volte, da adulti, siamo stati convinti che comprando un intero nuovo guardaroba avremmo potuto possedere un’altra vita, con più amici, più cose divertenti da fare, meno stress? Sappiamo che non è così, eppure è su questo esatto sentimento che i trend continuano a esercitare il loro potere: il desiderio di condivisione. 

In questo testo inedito, lo scrittore italiano Antonio Dikele spiega con un po’ di sana nostalgia il potere che un articolo di abbigliamento può esercitare su di noi. O, almeno, quello che esercitava un tempo. Perché sebbene oggi il mondo sia pieno di Labubu e di Sonny Angel, di scarpe e di vestiti vintage e firmati che piacciono tanto ai giovani creativi, con la morte della hype culture è venuta meno anche la desiderabilità dei prodotti. Di conseguenza, i brand si ritrovano obbligati a rincorrere i clienti mentre riportano perdite su perdite di fatturato. Nel 2025, l’industria della moda sembra essersi scordata che, mentre il mondo cambia, i bisogni del consumatore rimangono sempre gli stessi: comprare un prodotto per appartenere alla community che lo indossa, riconoscersi in una nicchia di cui apprezza i valori. È il prodotto che crea desiderabilità, non l’immaginario. Quello, come spiega Dikele nel testo che segue, viene dopo, plasmato dalla gente che lo indossa. 
 

Non so esattamente quando sia iniziato, ma ricordo perfettamente la sensazione. La paura di entrare in classe il primo giorno di scuola, non per la maestra o per i nuovi compagni, ma per quello sguardo che tutti avrebbero rivolto ai miei piedi. Alle elementari non era così. Si correva, si giocava, e se avevi scarpe che ti permettevano di scivolare meglio sull’asfalto eri già al top. Ma alle medie tutto è cambiato. Il mondo ha iniziato a dividersi tra chi aveva le TN, le Silver, le Total 90 e chi no. E io, no. Il primo giorno, il primo sguardo. Un’occhiata veloce ai piedi, un’espressione che diceva tutto. Un sorriso appena accennato da chi sapeva di stare nella parte giusta della barricata. Non importava se il giorno prima eravamo amici, se avevamo giocato insieme in cortile. Importava cosa avevi addosso, cosa dimostravi di poter permetterti. Le Air Max erano ovunque. Anche chi non aveva le TN almeno quelle le aveva. Io no. Avevo scarpe senza nome, con suole che non scricchiolavano nei corridoi, che non lasciavano impronte di rispetto dietro di me.

Quella sensazione di essere guardato, giudicato in pochi secondi, mi ha accompagnato per anni. Bastava un’occhiata alle scarpe per stabilire chi eri, se meritavi di essere ascoltato, se potevi stare con quelli giusti. Un marchio invisibile che portavi addosso prima ancora di aprire bocca. Mi chiedo spesso perché fosse così importante. Perché il simbolo del rispetto passasse da un paio di scarpe e non, magari, da come trattavi gli altri, da cosa dicevi, da come ti muovevi nel mondo. Ma alla fine la risposta è semplice: non erano solo scarpe. Erano appartenenza, status, protezione. Erano il segnale di chi eri prima ancora che qualcuno potesse darti il beneficio del dubbio. E non è qualcosa che riguarda solo i ragazzini. Crescendo ho capito che gli adulti fanno lo stesso, solo con altri codici. Con gli orologi, le macchine, le marche dei vestiti. La differenza è che alle medie nessuno aveva filtri: il giudizio era diretto, brutale, senza diplomazia. Passavo i pomeriggi a immaginarmi con ai piedi un paio di Total 90 nere con dettagli argentati. Non perché mi piacessero davvero, ma perché sapevo che bastava quello per non essere il bersaglio. 

E appena ho avuto il primo stipendio, indovinate la prima cosa che ho comprato?