
Da Valentino e Balenciaga il tempo è un disco rotto
Gli anni passano ma Alessandro Michele e Demna sono gli stessi
10 Marzo 2025
«Time is a flat circle» diceva Rust Chole in True Detective – una frase che rievoca Nietzsche e l’eterno ritorno dell’uguale che, senza voler discendere in eccessive spiegazioni, sostiene che il tempo sia ciclico e che ciascuno di noi sia costretto a ripetere le stesse azioni ancora e ancora, senza scelta o scampo. Una sensazione che è tornata ieri alla Paris Fashion Week, quando nello stesso giorno hanno sfilato collezioni firmate da Demna e da Alessandro Michele, uno sempre con Balenciaga e l’altro che adesso è da Valentino, che ci hanno riportato ai tempi in cui entrambi i designer erano i campioni di Kering – una parabola ascendente culminata nell’aprile del 2021 con la famosa collaborazione tra Gucci e Balenciaga. Proprio in quell’occasione si ebbe modo di notare come due designer così diversi, concentrati su mondi così diversi, possedessero lo stesso approccio post-moderno, uno sguardo che però Demna rivolgeva al mondo della working class di oggi e di domani, in una feroce parodia del lusso e che invece Michele gettava in un passato romantico e alto-borghese, così out of touch da poter essere estetizzato e reinterpretato come qualcosa di nuovo. Ieri il ciclo si è ripetuto – non solo a causa della giustapposizione delle collezioni dei due designer in calendario, ma anche a causa della riproposizione di questi approcci. Non molto, in breve, pareva cambiato. Al punto in cui è lecito domandarsi quanto effettivamente siamo cambiati noi come pubblico nel confrontarci con collezioni di Demna e di Michele che hanno mantenuto integralmente il proprio punto di vista sulle cose, sul mondo e ovviamente sulla propria moda e se, per i due designer, sia arrivato il momento di aggiungere qualcosa di nuovo a una formula che si ripete come un disco rotto.


Concettualmente parlando, il più irriverente dei due è stato Balenciaga. Lo show di ieri ruotava intorno all’idea di “standard” e rappresentava forse una risposta di Demna al mondo del normcore, al guardaroba standardizzato e infinitamente replicabile di Uniqlo ma anche al moderno concetto di standard del vestire quotidiano. Sì, c’erano completi da uomo “divorati” da immaginarie tarme e piumini con cappuccio impellicciato trasformati in corsetti – c’era persino una felpa zip-up con collo di pelliccia (un tipo di abito molto “da grande distribuzione” per usare un delicato eufemismo) con la parola “luxury” ricamata sopra e una hoodie trasformata in abito da sera che erano parecchio tipiche di Demna. In generale una sorta di riflesso del tipo di vestiario che un ragazzo di provincia nei primi 2000 avrebbe trovato nel centro commerciale locale. Ma, oltre al business casual, si trovavano divertenti trasposizioni moda dell’outfit tipico del culturista locale in una di quelle canotte che lasciano nudo l’intero fianco coprendo di base solo l’ombelico che però formavano una silhouette stranamente anarchica. Ma anche un abito-camicia chiuso da una mega-cintura nera che chiunque abbia vissuto attraverso l’era d’oro del business casual, sempre nei primi 2000, ricorderà e che sembrava una citazione al famoso outfit indossato da Kim Kardashian al party di US Weekly nel 2006, privato però del maglioncino grigio.

Le implicazioni estreme di quella che è parsa una sorta di indagine o esplorazione non ha solo scandagliato il mondo dell’anonimo business casual che fa parte dell’universo di Demna ma ha anche fotografato, portandolo in passerella, uno degli outfit più politicamente controversi e “carichi” dell’Europa contemporanea: la divisa dei maranza – che sarebbero, forse generalizzando, l’equivalente italiano dei “roadmen” inglesi e dei “caillera” francesi. Secondo le show notes questo oufit (che fa parte della collaborazione del brand con Puma) rappresenta «la moderna incarnazione dello streetwear» e in parte è, considerato anche come la divisa dei maranza, con le sue tute aderenti e persino il piumino smanicato, è diventata nel tempo un sinonimo di pericolo sociale (oggi come oggi a Milano, chi vede un gruppo di giovani vestito così nasconde i propri preziosi e affretta il passo) ma anche dell’esclusione e del pregiudizio che la società ha verso i giovani delle periferie e i cittadini di seconda generazione. Proprio questi outfit, pur non innovando un look già così consolidato, facevano riflettere su come, in fondo, i maranza/caillera di oggi non siano che una moderna versione dei punk anni ’80 – subcultura che oggi non percepiamo come pericolosa perché assimilata nel mondo mainstream ma che quarant’anni fa rappresentava per i buoni borghesi precisamente ciò che le moderne baby gang rappresentano oggi. In tal senso, gli show di Demna continuano a offrire materiale di riflessione su cosa sia la moda oggi oltre a proseguire nella perversa parodia del lusso e dei suoi significanti che ha reso Balenciaga il brand che è oggi.

All’estremo opposto dello spettro della “normalità” c’era Alessandro Michele con Valentino. E se, come spesso accade, il concept del bagno pubblico come teatro di intimità performativa, spazio liminale dove ricordi di Lynch e di Kubrick si incrociano, prometteva bene – la collezione-fiume che Michele ha presentato ci ha in effetti dato l’impressione che il tempo fosse un bloccato in una spirale. È stato già ampiamente chiarito da diversi critici online che anche i pezzi più sopra le righe visti ieri allo show erano citazioni dell’enorme archivio di Valentino e che dunque Michele non sta rifacendo Gucci. Non di meno, questa consapevolezza e ogni approfondimento culturale possibile riescono a negare ciò che sta davanti ai nostri occhi? Le show notes firmate da Michele spendono tantissimo fiato sul significato del set dello show per cui, sembra di intendere, gli ottanta look di cui non si parla nemmeno fossero un mero pretesto. Era forse una collezione più misurata per Michele che, a differenza del passato, si è attenuto ai codici altoborghesi senza mescolare incongruamente gli “abiti della contessa” a short da bicicletta color fluo, harness sadomaso, sneaker da running e via dicendo. Il buono non mancava: la collaborazione con Vans era indovinata, i pantaloni con taglio bootcut molto à-la-page, le combo di pelliccia e pantaloni sartoriali, oggi come allora, restituiscono bene lo stile contemporaneo di molti giovani che indossano i nobili vestiti del passato insieme al proprio guardaroba casual. Ma anche a fronte di singoli prodotti e look molto validi (Michele è bravo nel suo lavoro, sa rivitalizzare le vendite e il team di Valentino è da sempre una potenza) non si può onestamente dire che questa collezione sarebbe stata diversa cinque o sette anni fa né che lo sarà la collezione che Michele ci presenterà a un anno o due da oggi.

È normale questo senso di dejà-vu? È possibile creare il senso di pura e semplice meraviglia evocando sofismi, ragionamenti filosofici e prelevando concetti dalla critica artistica? Perché nel discutere di molti show di designer veterani e spesso amatissimi ci troviamo a cercare maniere di intellettualizzare, rendendolo soddisfacente, qualcosa che non ci sta eccitando più di tanto? Più che designer del post-moderno, sia Demna che Michele sembrano designer della post-verità nella valutazione dei quali le convinzioni personali, gli appelli emotivi, le immagini pre-formate giocano un ruolo più importante di quello che stiamo effettivamente vedendo in passerella. Questo non cancella l’impressione di essere già passati per questo punto, di esserci già trovati a discutere delle stesse cose, a guardare gli stessi vestiti, a inseguire significati ulteriori perché purtroppo il semplice aspetto dei vestiti ha messo di essere commento e ornamento a se stesso e adesso ha bisogno di spiegazioni, chiarimenti e attenuanti che diano un senso a ciò che vediamo. Eppure la scritta è sul muro (anche quello del bagno), la verità palese e i vestiti nuovi dell'imperatore non esistono. Il valore dell’arte e della creatività si crea quando il creativo in questione è anche il più feroce critico di se stesso e decide non di ignorare in modo ipocrita i giudizi e i consigli che vengono da se stesso e dalla sua platea ma di fare di meglio, di superare il passato senza ripeterlo. Nascondersi dietro il pigro relativismo del “è bello ciò che piace”, il fatalismo del "ma lui è un designer così" che finisce per distruggere il senso di tutto e dietro la deludente logica del “però vende” significa forse porre la barra dei requisiti troppo in basso. I tempi si ripetono solo quando lasciamo che si ripetano, dopo tutto, nella storia come nella moda.