
Quando il direttore creativo dovrebbe restare esattamente dov’è
In questa fashion season, il richiamo della stabilità è forte
03 Marzo 2025
Negli ultimi mesi, il mondo della moda è stato bersagliato da una raffica stancante di notizie riguardanti per lo più gli addii confermati o ipotizzati dei designer ai brand per cui lavorano. Burberry, ad esempio, che per la FW25 ha finalmente presentato una collezione davvero indovinata sotto la guida di Daniel Lee, potrebbe presto separarsi dal designer inglese. A Milano, invece, la moda italiana ha praticamente assistito all’addio in diretta da parte di Luke e Lucie Meier a Jil Sander. La notizia è stata messa in ombra da una serie di voci di corridoio che sollevano diverse domande: si dice che Donatella Versace potrebbe lasciare il suo posto da direttrice creativa del brand di famiglia, che a sua volta potrebbe essere prossimo target di un’acquisizione di Prada. Le posizioni incerte potrebbero coinvolgere anche Silvia Venturini Fendi da Fendi, Simone Bellotti da Bally e Maximilian Davis da Ferragamo. A Parigi, intanto, pare ormai cosa fatta l’addio a Loewe di Jonathan Anderson (che infatti non sfilerà né con la maison né con il proprio brand restando il grande assente della stagione insieme a Mathieu Blazy), mentre si attende conferma circa le posizioni di Maria Grazia Chiuri da Dior e di Casey Cadwallader da Mugler. In generale, ci sono delle separazioni tutto sommato naturali e auspicabili, non di meno un sentimento che si è sentito particolarmente vivo a Milano è stato un attaccamento ai designer creativi e alle loro posizioni correnti. Commentando con entusiasmo l’ultimo show di Bally, Vanessa Friedman ha scritto su X: «Just imagine him at a bigger brand» al che un’altra utente ha risposto: «Or imagine him staying put and continuing to take Bally to new levels. This idea of pushing people to the next best thing is ruining fashion». In effetti, in questa stagione, per la prima volta in anni molti insider stanno attivamente sperando che il gioco delle sedie musicali si fermi: certi direttori creativi dovrebbero restare esattamente dove sono.
Simone Bellotti’s Bally is really very good. Just imagine him at a bigger brand. pic.twitter.com/Px6HmhhcvX
— Vanessa Friedman (@VVFriedman) March 1, 2025
Il discorso inizia con Burberry, brand che si trova nelle prime fasi di una risorgenza fattasi attendere per anni il cui direttore creativo, Daniel Lee, potrebbe essere sulla via dell’uscita. Se lo avessero detto sei mesi fa non sarebbe stato un problema – ma ora che Lee, con un nuovo CEO al timone, ha creato una collezione finalmente valida, molto sua ma anche molto Burberry, che senso avrebbe lasciarlo andare via? La stessa domanda, caricata da un giustissimo sentimentalismo, si è sentita dopo lo show di Fendi. Circola da qualche mese la voce che il centenario della maison sarebbe stato anche lo show d’addio di Silvia Venturini Fendi, diventata per l’occasione designer della linea femminile del suo brand e dimostratasi forse l’unica direttrice creativa davvero in grado di saperne individuare l’anima, dopo una direzione creativa di Kim Jones alquanto dimenticabile. Nonostante Silvia Venturini Fendi sia confinata a gestire un brand dominato da loghi e monogrammi, ciò non toglie che sia una delle designer di menswear più brillanti degli ultimi anni - e con lo show del centenario ha dimostrato ampiamente che la sua presa sull’idea della “donna Fendi” è più sicura e precisa che mai. Perché, molti si sono domandati, non lasciarle in mano le chiavi di una casa che, in fondo, è comunque la sua? Nel frattempo, la giuria sta deliberando su Ferragamo e sul lavoro di Maximilian Davis malgrado il suo immenso talento, mentre il caso più eclatante di “designer che non dovrebbe andarsene” è quello di Simone Bellotti. Nel giro di quattro stagioni, il direttore creativo di Bally ha dotato il brand di un’identità stupendamente moderna, inafferrabile e nitidissima insieme, oltre a essersi confermato come un autore di incredibile solidità e perspicacia. Un suo addio non lascerebbe solo orfano lo storico brand svizzero ma toglierebbe anche alla Milan Fashion Week uno dei suoi ospiti più ambiti.
La maniera in cui pubblico e insider sperano che un certo designer non vada via dal brand che gli è proprio rappresenta una certa stanchezza nei confronti di continui cambi di direttore creativo che, per i manager della moda, sono un po’ come un defibrillatore per un brand il cui cuore va arrestandosi. E anche se questi cambiamenti sono in parte dettati dalla mano invisibile del mercato che regola domanda e offerta, dato che i rapporti che legano un designer alla sua maison sono da un certo punto di vista puramente transazionali, rimane vero che il valore più prezioso per un brand sta davvero diventando la stabilità e la coesione dell’azienda e della direzione creativa, al di là dei prodotti carry-over che si trovano in negozio, della storia e degli archivi di ciascuna realtà. Ci sono casi in cui certi abbinamenti sono naturali, come quello di Silvia Venturini Fendi e di Bellotti coi rispettivi brand; altri in cui al designer servono anche tre o quattro collezioni per trovare la via giusta, come nel caso di Daniel Lee da Burberry. Considerato come dalla nomina di un designer all’arrivo dei suoi prodotti in negozio spesso passi più di un anno, forse vale davvero la pena imparare ad aspettare che un direttore creativo aggiusti il tiro e non cambiare le carte in tavola ogni due anni. Anzi un brand che cambia direttore creativo ogni due o tre anni non comunica novità ma instabilità, scarsa credibilità. E spesso la crisi di un brand non dipende solo da chi guida la creatività, ma dagli strateghi e dai manager che si trovano dietro le quinte e prendono decisioni più vitali di quelle di qualunque designer. Se la moda vuole imporsi come produttrice di cultura, deve smettere di funzionare come un mattatoio. E se è vero che non serve aggiustare ciò che non si è rotto, si può sempre sistemare ciò che non funziona. Uno scossone ogni tanto spesso aiuta, ma troppi scossoni insieme diventano un terremoto.