
Cosa ci hanno comunicato i brand della Milan Fashion Week? by Andrea Varano
Negli ultimi anni parlare di moda significa avere a che fare non solo con l’estetica o la storia del costume ma con la brand strategy. Se ai tempi della moda autoriale lo sviluppo di una strategia di branding era qualcosa di relativamente semplice, intuitivo e organico, oggi le difficoltà si sono evolute e ramificate. I brand ci parlano e ci persuadono non solo con il solo fascino della loro opulenza, ma anche con i sottointesi della loro comunicazione, i significati nascosti tra le righe delle show notes. Un complesso gioco a scacchi con la psiche di un consumatore sempre più astuto e disincantato che la scorsa fashion week, a Milano, ha aggiornato le sue regole.
Per questo abbiamo chiesto al brand strategist Andrea Varano di diventare il guest editor della nostra newsletter mensile e raccontarci il suo punto di vista sui formati alternativi di sfilate visti nelle ultime settimane.
Durante l’ultima Milan Fashion Week i brand hanno comunicato tanto attraverso il medium. Medium come canale attraverso il quale il messaggio viaggia e medium come format che ne definisce la forma, lo stile e la struttura. Canale e format però non sono solo contenitori o veicoli di messaggi, ne sono parte integrante. Questa dinamica riflette una tendenza più ampia della stagione SS26, dove le case di moda hanno abbracciato formati ibridi di presentazione per trovare una quadra tra esclusività materiale e accessibilità digitale, rispondendo a un calo di engagement sui social e a una serie di policy sui prezzi che allontanano il pubblico giovane. «Il medium è il messaggio» diceva Marshall McLuhan.
Durante la settimana milanese, si sono distinti quattro episodi in cui il medium ha parlato quanto (se non più), della collezione, frutto di un perfetto coordinamento tra visione creativa e strategia di marketing. Tra questi, emergono presentazioni che hanno fuso cinema, interattività urbana e performance concettuali, segnando un'evoluzione rispetto alla sfilata tradizionale a esperienze narrative più immersive, in linea con una stagione di debutti e transizioni creative. In questo contesto, la democratizzazione della moda emerge come filo conduttore, con strategie che abbattono le barriere tra élite e pubblico generale, rendendo l'esperienza fashion non più un privilegio esclusivo ma un dialogo inclusivo che sfrutta spazi ibridi e narrativi per riconnettere consumatori disillusi.
Gli archetipi di Gucci
Gucci e Demna hanno presentato la collezione “La Famiglia” svelata a sorpresa prima attraverso il formato di una galleria ritratti e subito dopo raccontata attraverso “The Tiger”, il cortometraggio diretto da Spike Jonze. Il film, durato circa mezz'ora e con quasi mezzo milione di visualizzazioni su YouTube in un solo giorno. A Milano si è tenuta poi una premiere cinematografica col tradizionale red carpet dove gli arrivi del cast diventavano l’effettiva sfilata.
Interessante è la similitudine con “I Tenembaums”. Il contrasto tra ordine apparente e disordine che emerge, il concetto di pecora nera, quel mix di eccentricità, affetto e fratture che porta a galla le complessità nascoste delle relazioni familiari. Con il personaggio di Margot Tenembaum che trova eco ne La Bomba e proprio Gwyneth Paltrow, la Margot originale, nei panni de La V.I.P. La presentazione evoca una commedia popolata da archetipi pop italiani, molto ironici, ritratti con sprezzatura e ironia demniana, mescolando eleganza campy e swagger per rendere Gucci "reale" e relatable. Qui, il legame tra moda e cinema si fa palpabile: non solo come strumento narrativo, ma come ponte per democratizzare l'accesso alla cultura fashion, trasformando un film in un veicolo per rendere gli archetipi del brand universali e leggibili ma soprattutto pop.
Al centro, l’utilizzo degli archetipi, un tema noto a chi si occupa di marketing, figure che incarnano personalità, comportamenti, gusti e stili di vita specifici. I 37 look della collezione SS26 sono costruiti su archetipi italiani, integrando codici storici di Gucci, dal sensualismo di Tom Ford al barocco di Alessandro Michele, in un registro "Demna-esque" che bilancia nostalgia e contemporaneità, con pezzi classici reinterpretati attraverso volumi audaci e attitudini giocose. Questa scelta segna una svolta nel modo di presentare la moda, spostando il focus dal tradizionale rito della passerella a un racconto cinematografico aperto a tutti.
Forse nessuno sapeva più cosa rappresentasse Gucci e quindi la scelta è ricaduta sul distribuire il DNA del brand in un portfolio di look che richiamasse alcune delle epoche e degli stili che hanno definito la maison nel passato. In questo modo “La Famiglia” diventa uno studio approfondito sulla “Gucciness”, un invito a riconoscersi attraverso i diversi codici e stili di vita. E gli archetipi funzionano perfettamente perché aumentano le possibilità di vendere più prodotti (ossigeno per Kering) e aumentano le probabilità che le persone scelgano di acquistare l’intero look, mentre per chi ha meno senso estetico vengono offerte molte idee da cui prendere ispirazione.
La caccia alle uova di Diesel
Diesel ha trasformato la città in una passerella diffusa attraverso una caccia alle uova che ha coinvolto più luoghi sparsi per Milano. Questo format sposta il focus da una fruizione passiva a una forma collettiva. I 55 look della collezione sono stati racchiusi in uova trasparenti, disseminate in una mappa digitale accessibile via app con QR code, invitando il pubblico a cercare, scoprire e interagire. L'evento, oltre alla egg hunt vera e propria, è culminato in una festa che fungeva da vera presentazione, mescolando moda e engagement pubblico.
Glenn Martens ha dichiarato esplicitamente che “tutti possono avere una prima fila”, democratizzando così l’esperienza di una sfilata e dissolvendo le barriere tra palco e spettatori. La caccia alle uova non è solo un esperimento, ma anche una strategia di engagement che sfrutta il digitale e la partecipazione collettiva per creare il racconto intorno alla collezione. Progettata per coinvolgere la community milanese di Diesel rendendo la moda accessibile e interattiva in un format limitato ma inclusivo, l'urban hunt voleva creare una situazione in cui la moda si intrecciasse con il contesto urbano e uscendo dalle quattro mura della classica sfilata.
Il canale diventa lo spazio urbano, il pubblico diventa parte della narrazione trasformandosi da semplice osservatore a protagonista attivo, e la città si fa medium fondendo urbano e moda in un’unica esperienza. Tale fusione esemplifica come i brand stiano reinventando il marketing attraverso "terzi luoghi" (dagli hub i Nike e Alo Yoga, passando per i bar di Margiela e Louis Vuitton ma anche per i book club di Miu Miu e via dicendo) per incontrare i consumatori in contesti ibridi, democratizzando l'accesso alla moda oltre i confini del retail tradizionale e favorendo connessioni autentiche in un'era di isolamento digitale.
Il canale diventa lo spazio urbano, il pubblico diventa parte della narrazione trasformandosi da semplice osservatore a protagonista attivo, e la città si fa medium fondendo urbano e moda in un’unica esperienza. Tale fusione esemplifica come i brand stiano reinventando il marketing attraverso "terzi luoghi" (dagli hub i Nike e Alo Yoga, passando per i bar di Margiela e Louis Vuitton ma anche per i book club di Miu Miu e via dicendo) per incontrare i consumatori in contesti ibridi, democratizzando l'accesso alla moda oltre i confini del retail tradizionale e favorendo connessioni autentiche in un'era di isolamento digitale.
L’asta di Sunnei
Durante lo show di Sunnei non ha sfilato nulla, né modelle né collezioni. Ma sia il brand che i suoi stilisti sono stati venduti “al miglior offerente” attraverso una finta asta con tanto di banditore sul podio, teche e offerte in “fashion dollars”. Il brand è stato "venduto" per 111 milioni, i due designer valutati 95 milioni. Loris Messina e Simone Rizzo, che lasciano Sunnei dopo quasi un decennio, hanno orchestrato questo addio come un'asta in cui sono loro stessi a essere venduti, accompagnata da una collezione che funge da perfetto canto del cigno, riuscendo anche a parlare con la consueta ironia dei paradossi della moda.
Non è la sfilata a vendere l’abito, ma brand, identity e creatività che vengono mercificate in tempo reale. Il canale si sposta dalla passerella all’asta, il format unisce vendita, critica e partecipazione attiva del pubblico. Il gesto mette in discussione il valore che attribuiamo al talento, all’autorialità e all’estetica in un contesto ossessionato dal mercato. L'asta, in quanto performance partecipativa, democratizza il dibattito sul valore della moda, trasformando gli ospiti in partecipanti di una messinscena che diventa spazio di riflessione collettiva sul settore.
Versace e il ritorno alla cultura
Versace ha scelto di parlare di cultura. La narrazione che ha anticipato la sfilata tramite una serie di scatti d'archivio, opere d'arte custom e anche una poesia serve a mettere la città e i suoi simboli al centro. Embodied è un prisma che moltiplica i codici della maison. Sempre la cultura era protagonista della location per la presentazione, uno spazio d’arte come la Pinacoteca Ambrosiana. Sotto Dario Vitale, al debutto al posto di Donatella, la collezione SS26 resetta i codici del brand con contrasti cromatici vivaci, design d'ispirazione vintage e un cast assai inusuale per il brand finora che ha generato molte discussioni su sensualità e reazioni polarizzanti in un format intimo da showroom esclusivo.
Anche qui, il canale si allarga oltre la passerella e abbraccia fotografia, poesia e archivio. Il format rappresenta un progetto corale e stratificato attraverso i codici della cultura. Tornare a dove tutto è cominciato, per capire chi siamo ora. Questa approccio ibrido, lontano dal clamore delle classiche sfilate, privilegia un tipo di engagement controllato e comunica subito la nuova dimensione in cui vuole collocarsi Versace.












































