A Guide to All Creative Directors

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Tutti i dubbi sul futuro di Ferragamo

L’uscita del CEO Gobbetti fa presagire che anche il direttore creativo potrebbe presto cambiare

Tutti i dubbi sul futuro di Ferragamo L’uscita del CEO Gobbetti fa presagire che anche il direttore creativo potrebbe presto cambiare

Ferragamo e Burberry hanno due cose in comune: sono due brand storici, sono di recente entrati in crisi, hanno assunto un giovane direttore creativo inglese e hanno avuto come CEO Marco Gobbetti. Ma se i problemi del brand inglese non dipendevano direttamente da Gobbetti, i cui quattro anni alla guida del brand sono stati segnati anche dalla crisi del Covid e la Brexit, e il manager è stato in grado di imprimere una svolta ancorché parziale al brand, Ferragamo è un altro discorso: l’ormai ex-CEO che lascerà la sua posizione il prossimo 6 marzo ha visto il titolo in borsa del brand scendere del 65% in tre anni. All’inizio del 2022, le azioni erano scambiate a oltre 22 euro, mentre oggi si aggirano intorno a 7,65 euro. Quando era in procinto di accedere alla posizione, WWD scriveva che «è improbabile che Gobbetti affronti in Ferragamo le stesse sfide che ha affrontato in Burberry. Con 3,17 miliardi di euro, la capitalizzazione di mercato di Ferragamo è circa un terzo di quella di Burberry, ed è quotata in una borsa valori più piccola e meno significativa dell'LSE. La fonte delle vendite del marchio sono gli accessori in pelle di fascia alta, meno soggetti alle tendenze stagionali o dipendenti da stilisti di grido. Inoltre, questi accessori garantiscono margini più elevati». Ma i problemi del brand sono stati forse sottovalutati. Il 2024 è stato critico per Ferragamo: i ricavi preliminari si sono attestati a 1,04 miliardi di euro, in calo del 10,5% rispetto all’anno precedente e sul fronte della redditività, il brand aveva avvisato che l’utile operativo annuale si sarebbe aggirato intorno ai 30 milioni di euro - una riduzione significativa rispetto al livello pre-pandemia, quando l’utile era di circa 80 milioni di euro.  E, come accade sempre, l’addio del CEO fa sospettare che presto Maximilian Davies, giovane e brillante designer inglese chiamato a dirigere il brand nel 2022, potrebbe presto andarsene. 

L’uscita di Gobbetti rappresenta l’ennesimo cambio ai vertici di Ferragamo, che ha visto alternarsi ben quattro amministratori delegati in meno di un decennio. Michele Norsa aveva lasciato l’azienda nel 2016 dopo un decennio di leadership, seguito da Eraldo Poletto nel 2018 e da Micaela Le Divelec Lemmi nel 2021. Questa instabilità gestionale ha contribuito a creare incertezza sia all’interno dell’azienda sia tra gli investitori, complicando ulteriormente il processo di rilancio del marchio. Nel frattempo, il presidente Leonardo Ferragamo assumerà i poteri esecutivi, affiancato da un comitato di transizione composto da dirigenti esperti, tra cui James Ferragamo, Ernesto Greco e del vecchio CEO Michele Norsa, reintegrato nei ranghi. Le voci di corridoio parlano anche di una leadership difficile, dovuta al braccio di ferro tra Gobbetti e i membri della famiglia fondatrice, la cui coesione e resistenza al cambiamento è stata già indicata negli anni passati sia come un asset che come un limite. Già nel 2020, si poteva leggere su Reuters che la quota maggioritaria che la famiglia aveva sul brand (a seconda delle fonti e degli anni dovrebbe essere tra il 64% e il 70%) rappresentava un ostacolo per motivi legati alla gestione, alla struttura familiare e alla resistenza al cambiamento – punto di vista confermato anche da BoF all’uscita, nel 2021, del precedente direttore creativo Paul Andrew. Secondo l’articolo citato, la complessità e la ramificazione della famiglia rendono difficoltoso il raggiungimento di un consenso su decisioni strategiche fondamentali, come la possibilità di cedere una quota di minoranza o coinvolgere investitori esterni e questa struttura rallenta il processo decisionale e impedisce un’azione tempestiva in un settore altamente competitivo come quello del lusso.  

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Anche prima della pandemia, comunque, il brand mostrava segni di stagnazione, con vendite ferme intorno a 1,4 miliardi di euro, nonostante il boom del settore del lusso nello stesso periodo a cui è seguito un crollo del 60% anno su anno dei ricavi nel secondo trimestre del 2020. Inoltre, già cinque anni fa, il titolo azionario del brand Ferragamo era scambiato a multipli inferiori rispetto ai concorrenti di allora, come Moncler e Prada, le cui azioni nel frattempo sono salite molto più in alto, segnalando una debolezza percepita dal mercato. Allo stesso tempo, le dimensioni relativamente piccole del marchio lo rendono poco attraente per i grandi colossi del lusso come LVMH o Kering, complicando ulteriormente la possibilità di un’acquisizione. Ma anche gli investimenti di una private equity, che avrebbero dovuto essere ingenti, avrebbero richiesto una cessione del controllo operativo. Sul piano esterno, quello della percezione, il problema di Ferragamo non risiede tanto nel prodotto o nella direzione creativa (la borsa Hug di Maximilian Davis è un modello apprezzato dai fashion insider) ma in un mercato del lusso che affonda tirato dalla doppia zavorra di un arresto della spesa di lusso a livello globale, da un lato, e dall’altro da un panorama moda è saturato all’inverosimile, con molti revamp di brand che hanno adottato l’estetica modernista-chic riportata in auge da Daniel Lee ai tempi di Bottega Veneta, fatta di testure ricche, opulenti drappeggi e una tendenza al ton-sur-ton alla maniera di Phoebe Philo. Il talento di Maximilian Davies in questo senso è stato finora la proverbiale cattedrale nel deserto: le sue collezioni sono eccellenti, l’ingresso ai suoi show richiestissimo ma l’apprezzamento che riceve non esce dalla “bolla della moda” traducendosi in popolarità e vendite – il problema sembra più relativo all’automobile che al suo pilota, insomma. Ma se Ferragamo perdesse anche il suo attuale “pilota” i dubbi sul suo futuro si moltiplicherebbero ulteriormente – anche se servirebbe prima di tutto distinguere i sintomi dalla causa.