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I full look sono un problema?

Come l'industria ipervigilante del marketing ha inventato una nuova pratica commerciale

I full look sono un problema?  Come l'industria ipervigilante del marketing ha inventato una nuova pratica commerciale

Quando si pensa ad un full look, il coordinato catapultato dalla passerella al red carpet o al magazine senza possibilità di interdizione da parte di stylist, la prima riflessione a priori è quella di coerenza estetica: proporre i capi così come sono stati validati dalle maison di moda ne conferma la linea di azione e di pensiero. Nel pieno fermento creativo degli anni ’80 e ’90, quando il mito del direttore creativo prendeva sempre più forma e sostanza, i magazine detenevano un monopolio a livello comunicativo rispetto ai brand e lo styling, di conseguenza, costituiva un’amplificazione della visione creativa di un giornale. Tracce di questa metodologia di styling, per esempio, rimangono nelle parole di Ariela Goggi, storica ex vice direttrice di Vogue Italia, in conversazione con Federico Chiara:

«Non immaginarti il glamour della moda italiana di oggi: quando abbiamo iniziato, nei tardi anni 70, era tutto in fase embrionale, ci siamo inventate un mestiere in totale libertà. Gli stilisti e i marchi di riferimento, per un giornale giovane come Lei, erano ancora pochissimi e li incontravamo al Pitti Casual, dove tutto girava intorno al jeans. Quando avevamo un’idea per un servizio, gliela sottoponevano e loro realizzavano gli abiti apposta… Capisci? Poi i look da fotografare li provavamo prima su di noi, aggiungendo creazioni personali qua e là». 

Con l’internazionalizzazione dei grandi gruppi del lusso, la specializzazione dei dipartimenti e la crisi dell’editoria di moda, lo scenario di riferimento è decisamente cambiato - i full look sono diventati un’esigenza commerciale a cui non opporre resistenza. Se per i magazine mainstream e appartenenti a grandi gruppi editoriali il full look è l’unica via perseguibile per una sorta di conflitto di interessi che vedrebbe venire meno le regole base dell’investimento da parte degli inserzionisti, i magazine indipendenti non sembrano allontanarsi da questa pratica di styling ormai capillare. Anche gli stylist affermati - includendo tutto lo spettro che tocca questa professione, da chi lavora con le riviste a chi cura l’immagine delle celebrity fino ai preziosi collaboratori dei direttori creativi di brand - editano incessantemente full look stagione dopo stagione. 

 

I limiti e le opportunità dei full look

Della questione se ne è occupato qualche anno fa BoF, tracciando le potenzialità e le debolezze nascoste dietro a questa pratica editoriale senza via d’uscita. «Non sei un bravo stylist se proponi full look, sei un vestiarista» dichiarava un addetto ai lavori affermato che scelse la via dell’anonimato. «È un qualcosa di particolarmente evidente quando un brand assume un nuovo direttore creativo e l’intenzione è quello di stravolgere lo stile. Questo influisce davvero sul lavoro di styling». Al di là della visione totalmente dispregiativa verso i full look e della loro consequenziale adozione nelle fasi di passaggio di direzioni creative, riproporre in maniera pedissequa lo styling voluto da un brand  «trasmette un messaggio più forte». Messaggio che, per chi lavora nell’editoria, risulta più vantaggioso anche a livello logistico in quanto ogni look completo può essere spedito e consegnato già preconfezionato. Tuttavia questa metodologia fotografica e di styling a cui ci siamo abituati ha generato un senso di frustrazione in alcuni creativi.

«Spazzano via la libertà e uccidono l’ispirazione perché esercitano una forma di controllo eccessivamente ingombrante» confessava a Bof Alexandra Carl, fashion director della rivista Rika. Lavorare sotto una forte pressione creativa, secondo altri, fa parte del mestiere degli advertiser«Quando lavori nell’editoria di moda, maneggi con cura un elenco con gli inserzionisti e questo genere di cose va avanti da molto tempo: ero una bambina da Bazaar quando ho ricevuto quella lista», ha detto Melanie Ward a BoF. Il messaggio che dovrebbe passare, precisa la stylist, sarebbe il seguente: «Questa scarpa è il motivo per cui siamo su questo set. Ci pagano per le riprese, quindi il nostro compito consiste nello scattare una bellissima foto con questa scarpa e nel creare una storia intorno ad un personaggio che la indossa». Il problema dei full look, volendone evidenziare  delle criticità, può risiedere nel metodo: ci sono cover di magazine mainstream che non riescono a trovare un accordo tra full look, modelli e set design e altre che, invece, ne esaltano tutti gli aspetti superando persino il “limite” della commerciabilità. Uno scenario che, ad esempio, si può desumere dall’editoriale recentemente scattato per il May Issue di V Magazine con Anne Hathaway come protagonista. “His & hers” estrinseca e smaschera una dualità narrativa grazie a full look Maison Margiela Couture, Dolce & Gabbana e Valentino perfettamente calati nella dimensione narrativa della cover story.

 

I fit check, il narcocapitalismo e il post fashion 

@rubylyn_ Day to night styling with @Nike #teamnike #nikeirl 21 Savage Wave Beat - Pbl

«Cosa hanno in comune l’invenzione degli anestetici a metà dell’Ottocento, l’uso della cocaina da parte dei nazisti e lo sviluppo del Prozac? La risposta è che tutti sono prodotti della stessa logica, che definisce la nostra contemporaneità come l’era dell’anestesia» evidenzia il filosofo Laurent De Sutter nel libro Narcocapitalismo. Benvenuti nell’era dell’anestesia. Traslando l’immaginario narrativo e sociale di questo breve trattato sulla psico-farmacologia sul versante vestimentario, possiamo affermare di essere diventati dipendenti dai full look? «Oggi siamo nella fase post-fashion: superata l’epoca dell’indipendenza creativa della Couture e del prêt-à-porter, assistiamo a un nuovo assoggettamento della moda ad altri settori della società», osserva Nello Barile, docente di Sociologia della Moda all’Università IULM di Milano su Harper’s Bazaar. «Succedeva anche durante l’Ancien Régime, l’era pre-fashion di Maria Antonietta, quando la moda era controllata dalle regole della corte e dalla politica dell’etichetta». Controllo e prudenza che, sommati agli slogan della cultura woke e al populismo di matrice conservatrice, hanno portato ad una polarizzazione cognitiva (prima che estetica) in cui anche la moda deve destreggiarsi. In questo magma fluido che qualcuno ha preferito liquidare come Post, varrebbe la pena includere anche i fit check tanto amati dalla Gen Z e gli edit proposti dai brand di moda - shopping guide celate dietro ad una patina editoriale di cui i full look non sono che i primi asset strategici. Anche i fit check, così spontanei nell’accostare il basso con l’alto, item fast fashion con brand di lusso, il più delle volte fungono da format commerciale pattuito tra brand e creator. Altre, invece, rispondono realmente alla genuinità di proporre uno spezzone della propria vita intervallato ai mix and match dal guardaroba. Se dunque per alcuni creator il full look costituisce effettivamente una forma di culto verso designer contraddistinti da un’estetica molto precisa, per altri è un’opportunità di collaborazione, di visibilità e di guadagno. Per altri, ancora, una forma di investimento. Per altri, infine, una procedura editoriale da tramandare. Ma ne siamo diventati così dipendenti da esserci dimenticati cosa significa l'emozione di vestirsi?