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Armani ha ragione nel dire che oggi alla moda manca sostanza?

«Tutto è molto, molto superficiale», ha detto il designer al Financial Times

Armani ha ragione nel dire che oggi alla moda manca sostanza? «Tutto è molto, molto superficiale», ha detto il designer al Financial Times

L’imponente macchina del sistema moda sta scricchiolando. Nelle ultime ventiquattro ore, due diversi articoli su due diversi giornali hanno lamentato la sterilità che sta piagando un’industria della moda sempre più asettica, robotizzata e avversa ai rischi. Uno è The Fashion World Has a Talent Problem, scritto da Cathy Horyn su The Cut, l’altro è un’intervista di Silvia Sciorilli Borelli a Giorgio Armani per il Financial Times. In entrambi i pezzi, la giornalista e il designer esprimono punti di vista simili, criticando l’imborghesimento di un’industria che, almeno in linea teorica, ha prodotto i suoi risultati culturali migliori quando il suo ecosistema esisteva allo stato brado, per così dire, e non sotto l’attuale forma di un allevamento intensivo. In particolare, Armani è stato critico nei confronti dei grandi conglomerati come LVMH e Kering: «Questi gruppi francesi vogliono fare tutto. Non lo capisco, è ridicolo. Perché dovrei essere dominato da una di queste gigantesche strutture prive di personalità?» Aggiungendo anche che produrre moda «è molto difficile in questi giorni, dato che quello che oggi piace ai giovani non piacerà domani. È il mondo sotterraneo dei VIP a stabilire le tendenze, non c’è cultura, non c’è sostanza… tutto è molto, molto superficiale».

Una sensazione provata da molti, a dirla tutta, come dimostra anche l’articolo di Horyn in cui lo stesso Sydney Toledano, uno dei più alti papaveri dell’industria, ai cui piedi si distende in tutta la sua immensa vastità la Divisione Moda di LVMH, dice: «Non mi piace la nostalgia. Se sei nostalgico, sarai frustrato. [Ai tempi di Galliano] Dior era una piccola casa, potevamo confrontarci ogni giorno e risolvere i problemi appena si presentavano. Avevamo la mentalità di un artigiano. Ma le nostre esigenze oggi sono cambiate». Un pensiero che ha assalito molti questa settimana, che ha visto il designer emergente Peter Do presentare una blanda collezione per il revamp di Helmut Lang, sicuramente dietro forzatura degli apprensivi manager di Fast Retailing, e Sarah Burton andare via da Alexander McQueen, brand il cui fondatore era uno dei più grandi geni della moda e la cui visione è stata liofilizzata e ridotta a poche e scarne componenti esteriori, una formula sintetica che non è mai sembrata viva e pulsante come la selvaggia bellezza che Lee McQueen ha portato in passerella per anni. Con sublime e feroce ironia, Louis Pisano ha scritto su Twitter che il più durevole contributo che Burton ha lasciato alla moda sono state quelle sneaker Overisize che, però, sono probabilmente il prodotto di punta nei report finanziari del brand (che non vengono mai pubblicati nel dettaglio). Un simbolo se vogliamo del paradosso per cui se da un lato la cultura della moda, fattasi industria, ha trasformato un patrimonio artistico in un fenomeno commerciale, dall’altro quello stesso successo commerciale ha consentito al brand di sopravvivere al proprio fondatore. Ammesso che ciò sia un bene.

Secondo Armani ai gruppi del lusso manca personalità – il che è vero dato che ormai ogni brand produce ogni singola categoria merceologica per penetrare in ogni strato del mercato. Armani dice anche di essersi fatto una foto con una signora avanti con gli anni «che probabilmente non si è mai potuta permettere uno dei miei abiti per tutta la sua vita, e piangeva». Ma oggi chi non può acquistare un abito di couture come la signora in questione può sempre comprare un fondotinta, una t-shirt logata di qualche linea di diffusione, una sneaker e, nel caso di Armani, anche un oggetto di arredamento. Ci sono mille porte per accedere al sistema, alcune più piccole e umili di altre forse, ma l’unica vera barriera è il prezzo. Ed è anche giusto così: indossare prodotti di lusso (Horyn, sulla scorta di Eugene Rabkin, opera una doverosa distinzione tra il lusso e la moda) non è un diritto naturale e inalienabile, il sistema della moda si nutre di esclusività e, per citare nuovamente i tweet di Pisano, «la gente vuole che i brand si fondino sull’arte e non sui profitti ma poi rimangono sconvolti quando i brand chiudono e i designer vengono licenziati perché non ci sono abbastanza soldi – quando non hanno nemmeno mai comprato niente dai suddetti brand per iniziare». È dunque ovvio che, con i profitti in mente, queste grandi case divenute behemot miliardari lavorino con la stessa mentalità di Zara: sfornare nuovi prodotti, far tornare i clienti in negozio, offrirgli tutto quello che possono desiderare, dagli abiti da sera alle racchette di ping pong, dal mascara alla tappezzeria. Paradossalmente la strategia funziona dato che Inditex ha visto le sue vendite aumentare del 16,6% nella prima metà del 2023 e programma pure di alzare i prezzi, imitando di fatto l’industria del lusso. Stranamente, e i lettori ci passino il termine, il lusso si “zarifica” mentre Zara si “lussifica”.

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«Il fatto è che oggi i designer traggono ispirazione dal passato e non inventano niente di nuovo a meno che non gli venga una mattana», ha proseguito Armani riecheggiando il disincanto che aleggia nei corridoi e nelle anticamere dell’industria, dove gli insider a mezzavoce concludono ogni riflessione sulla stanchezza creativa del sistema con un filosofico: «Ma tanto è stato tutto già fatto, abbiamo già visto tutto». E, in effetti, quante volte si può reinventare una felpa, un blazer, una gonna? Il che riflette anche i nuovi requisiti dei direttori creativi, meno designer e più curatori, aggregatori di significanti pre-esistenti, riciclatori se vogliamo, compositori di playlist. Curiosamente, il maggior innovatore degli ultimi dieci anni, Virgil Abloh, sosteneva anche che bastasse alterare del 3% un design già esistente per farne qualcosa di completamente nuovo. Di fatto creando uno spostamento dei valori: dall’eccellenza efficiente del passato, all’efficienza eccellente di oggi. Ma che succede quando il motore di questa macchina perde di efficienza? Di recente Bernard Arnault ha speso 215 milioni di euro per comprare azioni di LVMH, il cui valore è calato del 14% dopo un report finanziario che mostrava un indebolimento delle vendite nei mercati-chiave degli USA e della Cina.  A questo livello di grandezza, stranamente, il minimo colpo di tosse del gigante semina agitazione e terrore negli investitori, massa anonima e sterminata che diluisce inevitabilmente la leadership di qualunque azienda che deve piegarsi a essa. 

Forse allora c’è da sperare in una decrescita, se non felice come quella sognata dal professor Latouche, almeno capace di far rinsavire un’industria diventata così grande da fare zavorra a se stessa.