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La moda stanca

«When you’re finished changing, you’re finished»

La moda stanca «When you’re finished changing, you’re finished»

Quando tredici anni fa Takahiro Miyashita annunciò al mondo che il suo brand di culto Number (N)ine avrebbe chiuso, disse famosamente: «When you’re finished changing, you’re finished». Un motto che nel corso dello scorso mese ha trovato più di un’applicazione. Dal recentissimo divorzio tra Alessandro Michele e Gucci, passando per la chiusura definitiva di Raf Simons e la vendita di Tom Ford, queste ultime settimane sono state segnate dalla conclusione di archi narrativi caratterizzati dal tema della ripetitività e della stanchezza. Stanca era ormai la produzione creativa di Simons, brand ormai distante dalle subculture giovanili ma anche privo di una sua collocazione precisa nel mercato del lusso; di «brand fatigue» si è parlato a proposito di Gucci invece, che dopo sette anni di crescita tumultuosa si è avvitato su stesso in una spirale di eccesso e prevedibilità; e sempre di stanchezza su può parlare a proposito di Tom Ford, il cui nome venerato e il cui menswear di mega-lusso vende molto ma la cui incisività è stata persa già da qualche tempo. In tutti e tre i casi, e con contesti ed esiti diversi, la stagnazione creativa ha portato a capovolgimenti del sistema che erano tanto indesiderati quanto necessari. Ma verso dove ci stiamo muovendo?

@insspiredby Gucci has announced the end of its collaborative relationship with Alessandro Michele #alessandromichele#gucci #fashion#model#fyp suono originale - INSPIREDBY

Dopo tutto la moda è legata alla propria epoca e quando questa cambia anche quella deve seguire - né tutta la brand fatigue vien per nuocere. Se la stanchezza che circondava Marc Jacobs, ad esempio, ha portato alla nascita di Heaven due anni fa, uno dei casi di fashion comeback più interessanti degli ultimi anni, la chiusura di Raf Simons ha lasciato spazio a nuovi e giovani brand con più cose da dire, senza sprecare spazio nel mercato tenendo vivo il marchio senza il suo creatore; l’uscita di Michele da Gucci, invece, così come quella di Tisci da Burberry, daranno spazio a visioni creative alternative di cui francamente si sentiva già il bisogno da un paio d’anni. Anche i due celebrati designer romani, così come Simons, avevano finito di cambiare, per usare le parole di Miyashita – laddove Jacobs ha trovato nuova linfa in una linea giovanile e attuale la cui freschezza stride con un ready-to-wear ridotto a un catalogo di 85 basics ricoperti di un monogramma. Al cambiamento che segue la stanchezza i mercati rispondono bene: nei casi di Burberry e Gucci, subito dopo l’addio dei suoi direttori creativi, le azioni di entrambi i brand hanno visto un incremento. 

Ma è davvero solo una questione di “commercialità vs. creatività”? Forse la questione alla base è più complessa di così. Gucci, ad esempio, è un brand dalla storia ciclica: già alla fine degli anni ’80, ai tempi dello sciagurato management di Maurizio Gucci, i prodotti del brand erano diventati indesiderabili a causa delle licenze selvagge concesse dal brand che avevano portato monogrammi e loghi su ogni ammenicolo pensabile – un massimalismo frenato prima da Dawn Mello e poi fatto saltare in aria da Tom Ford. A loro volta, i lascivi e decadenti look di Ford avevano creato stanchezza nei primi 2000 e Frida Giannini aveva diretto il brand verso una nuova direzione classicista e commerciale poco amata che infine, nel 2015, Michele aveva capovolto ancora una volta, precipitando otto anni dopo nel tranello della fossilizzazione. Adesso siamo pronti a scommettere che il prossimo designer inaugurerà un’epoca di minimalismo e un ritorno all’artigianato – un po’ come è già successo da Bottega Veneta con l’ascesa di Matthieu Blazy. La sensazione, comunque, è che dai valori astratti del “lusso come narrativa” si stia tornando a quelli concreti, tangibili e qualitativi del “lusso come autenticità”, in cui appunto le narrative grandiose, i messaggi edificanti e i sistemi di valori non vengono usati per vendere felpe e sneaker di poco conto, ma in cui a vincere è l’equazione di creatività e qualità sul piano del prodotto finale. Molti dei grandi autori della moda indipendente di oggi, pensiamo a Rick Owens, a Dries Van Noten, a Yohji Yamamoto, sono per molti versi ripetitivi da decenni: come mai non stancano? A rispondere ci viene in aiuto proprio Owens, che intervistato da Le Temps nel 2007, rispose così a chi gli domandava se il suo lavoro non fosse ripetitivo:

«Apprezzo l'estro e la gioia dei creatori che sperimentano e si lanciano in altre direzioni, ma io ho scelto una strada più dritta per me stesso, nel bene e nel male. Sono sempre stato più interessato alla costruzione degli abiti che al loro messaggio. [...] Non ho un mondo immaginario. Cerco di mettere in passerella il mio mondo reale. [...] Sulla passerella autunnale non c'era nulla che non fosse in vendita nel mio negozio. O che non consideri una proposta seria da parte mia».

Altrove, nel mondo della moda commerciale, l’avanzata del “lusso come autenticità” prosegue: Celine e Saint Laurent, due brand che non si sono mai lanciati in acrobazie concettuali o creative fuori di testa, registrano enormi crescite; Hermès, Zegna e Brunello Cucinelli, per fare due esempi di brand indipendenti dalla clientela più matura, possono vantare risultati finanziari positivi a dispetto di price point inaccessibili. Senza parlare di Pinault, presidente di Kering, che diceva a febbraio di volere far concentrare i brand del suo portfolio su un approccio più classico e timeless al lusso: meno item così legati a un certo periodo da risultare antiquati fra tre mesi e più prodotti capaci di durare decenni, di ispirare fiducia. Al di sotto dell’high luxury, nel mercato premium, brand come Aimè Leon Dore, Studio Nicholson, Our Legacy e Officine Générale prosperano quietamente grazie a una audience giovane irretita dai prezzi dell’high luxury, desiderosa di freschezza e novità ma memore di quanto successo dopo il passaggio dell’uragano streetwear, quando si è ritrovata l’armadio pieno di felpe logate e sneaker sopra le righe che ora indossare pare quasi infantile. Per quanto non sembri, dopo tutto, i postumi della sbornia streetwear e le cicatrici lasciate dalla pandemia hanno riportato i Millennial verso i lati più concreti e tangibili della vita, come anche gli astuti membri della Gen Z che su TikTok vivono di espedienti e aggirano il problema del pricing consumando dupes, contraffazioni, capi secondhand o semplicemente Shein e il fast fashion – cioè consumando a vele spiegate senza spendere enormi cifre in boutique o diventare per forza clienti diretti del lusso, senza farsi remore di fronte all'acquisto di merce falsa. Non è un caso che BoF abbia definito quella della Gen Z, «l’epoca del realismo», pur con tutte le sue implicite contraddizioni.