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È ora di farla finita con i reality show all’italiana?

Sguardo su un format in crisi

È ora di farla finita con i reality show all’italiana? Sguardo su un format in crisi

I reality show hanno dominato la cultura televisiva degli ultimi vent’anni, ma nel corso del tempo molti vecchi format ventennali hanno perso mordente e ascolti. Nel 2023, l’audience che segue questi show, Grande Fratello VIP in testa, rimane oceanica anche se diminuita rispetto alle edizioni condotte da Barbara D’Urso, (la media di share dell’ultima edizione del reality di Mediaset è di circa il 20% a puntata) ma ultimamente la forza dei reality pare come minimo compromessa: all’inizio del mese si era parlato di una sfuriata di Piersilvio Berlusconi «per le troppe parolacce e volgarità» arrivata, secondo il Corriere, dopo settimane di «richiami alla produzione, affinché correggessero il tiro rispetto a comportamenti degli inquilini della casa che stanno degenerando e che secondo lui sarebbero un’assoluta mancanza di rispetto nei confronti del pubblico»; la settimana scorsa invece è stato Carlo Rienzi del Codacons a definire i reality «una vergogna nazionale» soggetta a una «emorragia di ascolti» parlando della «decadenza verticale» del format e denunciando «il nulla assoluto su cui questi show si basano [che] è ormai venuto a noia anche ai fan più incalliti, che di parolacce, bullismo, volgarità e discussioni vuote non ne possono proprio più», cassando i reality show nella loro totalità come «obsoleti e impresentabili». E anche se è dai tempi della prima edizione del Grande Fratello che si fanno questi discorsi, considerato come forse gli stessi produttori del programma si siano resi conto della sua degenerazione, è forse opportuno domandarsi di nuovo: i reality hanno fatto il loro tempo?

Quando nacquero, prima della rivoluzione digitale, i reality show ci offrivano un tipo di televisione brutalmente sincero e privo di filtri, distante dagli educati salotti tv degli anni ‘90. Già a quei tempi le gag sulla scarsa levatura culturale di questi show abbondavano – basti pensare che le clip dei provini più trash per il Grande Fratello venivano trasmessi dalla stessa Mediaset durante i programmi della Gialappa’s. Con il tempo, l’iconografia del protagonista di questi show venne definendosi meglio: figure come Pietro Taricone e Marina La Rosa dimostrarono, prima degli influencer, che non serviva saper cantare, ballare o recitare per raggiungere enormi livelli di fama. Col tempo il fenomeno andò crescendo, strutturandosi ulteriormente, e portando a una fioritura di questo format attraverso ogni piattaforma streaming pensabile. Oggi senza dubbio il mercato dei reality è saturo: dalle serie americane su ricche casalinghe e agenti immobiliari di lusso, fino a tutti i date show pensabili a tema balneare, passando per tutte le variazioni possibili di Jersey Shore per giungere a grandi classici come Grande Fratello VIP e L’Isola dei Famosi pare che questi reality, per citare Bill Paxton in Aliens, «escano fuori dalle fottute pareti». Eppure, in Inghilterra, Collider si domanda se Love Island, la cui nona stagione ha registrato ascolti alquanto bassi, non sia divenuto noioso; lo status leggendario delle Kardashian sembra essere in crisi mentre Time, la settimana scorsa, rifletteva sui segni dell’incipiente declino di The Bachelor, i cui concorrenti ormai dichiarano apertamente di essere lì solo per guadagnare un following su Instagram.

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Per tornare alle parole di Rienzi, dire che i reality show e i loro concorrenti siano volgari è rimarcare l’ovvio: è la loro natura trash ad averli portati fino a qui. La formula del reality show non è nata per l’edificazione degli spettatori ma per soddisfare un desiderio a metà tra l’antropologico e il voyeuristico che è poi degenerato nel trash e nel  guilty pleasure. E considerato come in Italia il livello della televisione pubblica sia ancora tragicamente basso, se quanto accade nello studio del Grande Fratello irrita lo stesso AD di Mediaset forse un fondo di verità esiste, forse la volgarità di questi programmi ha smesso di essere liberatoria ed è invece diventata sistemica, da eccezione è diventata regola. Anche gli ospiti in studio, definiti arditamente “opinionisti”, così coinvolti in discutere dettagli di etichetta di nessuna importanza, paiono usciti fuori da The Hunger Games con le loro grottesche mises d’avanspettacolo e i loro drammi di pessimo gusto - nessuno di loro pare vivere nel mondo reale ma sono comunque ad anni luce di distanza dal fascino di una celebrità rispettabile. La realtà imita i meme.

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E anche ammettendo che le audience non si siano stancate delle urla, dei futili litigi, delle cafonate e dell’infima levatura dei concorrenti (quest’ultima, forse, è ciò che mantiene alti gli ascolti dopo tutto), si può comunque asserire che l’elemento “reality” dei reality show sia ampiamente venuto meno con la saturazione del mercato e la trasformazione di questi programmi in fiction vere e proprie con letterali sceneggiature. L’elemento, per così dire, documentaristico era comunque già venuto meno anni fa, quando i producer di Acapulco Shore e di altri reality più “adulti” dovevano solleticare l’attenzione della audience con nudo e scene di sesso e gli stessi concorrenti avevano smesso di essere persone reali (la sincerità a volte brutale di Floriana, del GF 2003, ora è solo un distantisismo ricordo) ed erano stati sostituiti dalla lampadata, palestrata fauna che popola gli strati più bassi dell’industria dell’intrattenimento italiana. Oggi essere in un reality significa perdere, e non guadagnare, aspirazionalità: ingaggiare questa forma di trash rappresenta, culturalmente parlando, un disonore. Soltanto Luca Argentero, in vent’anni e più di Grande Fratello, è riuscito a redimersi - una statistica manco troppo sorprendente considerata la demografia degli altri concorrenti. Persino Pio e Amadeo, non certo due gentlemen, hanno detto qualche giorno fa: «È più dignitoso fare un lavoro umile che andare in un reality». 

In effetti rispetto al passato sono cambiate molte dinamiche. Inizialmente, ad esempio, si pensava che il vincitore del reality di turno avrebbe guadagnato uno status di celebrità - cosa poi rivelatasi falsissima con ex-concorrenti depressi dopo che la loro effimera fama era sfumata in pochi mesi precipitandoli nell’anonimato da cui venivano. Anche il casting dei concorrenti non è migliorato: dopo aver esaurito il repertorio del kitsch, i produttori hanno interpellato quello delle celebrità di seconda scelta, andando via via scendendo nella gerarchia e finendo per raschiare il fondo del barile con “imprenditori e modelli” semi-famosi su Instagram che aderiscono puntualmente al cliché del basic belloccio che tiene la camicia sempre troppo sbottonata, i pantaloni troppo corti e stretti e rigorosamente senza calze di cui in Italia abbiamo scorte infinite. Non che inizialmente i concorrenti fossero degni del premio Nobel, ma inizialmente esisteva un desiderio di campionare il paese reale e vedere cosa sarebbe accaduto - oggi invece i concorrenti dei reality sembrano venire tutti dalla stessa fabbrica, la loro assenza di argomenti di conversazione e qualifiche professionali fa parte del loro personaggio tanto quanto le quote motivazionali in inglese nelle loro caption di Instagram, i tatuaggi dozzinali, le curve siliconate e quella bellezza yassificata, standardizzata e artefatta, per nulla naturale, così tipica dei programmi Mediaset e delle riviste di gossip. 

Se in mezzo a questo mare di noia e disagio un reality pare avere successo, piuttosto, è Physical: da 100 a 1, programma che in pieno stile Squid Game si basa su devastanti prove fisiche ed è così reale che alcuni concorrenti si sono pure rotti una costola. Come molti programmi moderni, Physical cancella la distinzione tra talent show e reality show, dato che oltre alla competizione vera e propria lo show include anche un elemento di narrazione reality-style per i concorrenti. Lì i protagonisti sono atleti, la realtà di quelle competizioni si sente tutta - un po’ come per Takeshi’s Castle ma anche per programmi più “settoriali” o basati su competenze specifiche che stanno tra talent e reality show come The Great British Bake Off o Il Fuoco di Spade. Proprio il successo di Physical, che secondo alcuni è il battistrada dell’avvento del reality show coreano in Europa, forse dimostra i limiti di un format che, specialmente in Italia, fatica a cambiare ma soprattutto a rappresentare il paese e diventare un fenomeno senza attingere ai registri del grottesco, del patetico e dell’imbarazzante. In un mondo che ha fame di autenticità, o comunque anche di una parvenza di serietà, i reality non devono sparire, solo migliorare. Ed è per questo che il format trash del reality anglosassone/americano o italiano (che al format precedente aggiunge il salotto tv) ha una maniera di uscire dal fosso che si è scavata da sola, a furia di auto-indulgenza e supina aderenza a uno script sempre uguale, ridotto ormai a stanca formula.