A Milano la moda non è più fatta per la Gen Z
È finalmente arrivata l’ora della sciura?
28 Febbraio 2023
Che l’intera industria della moda stesse flirtando pesantemente con la Gen Z non era un mistero – tanti sono i prodotti visti nelle scorse stagioni che danno l’impressione di essere pensati per diventare virali su TikTok. Nelle scorse fashion week c’era stata in effetti la sensazione che l’intero apparato del luxury fashion fosse interamente assoggettato alla supremazia del content, del momento virale che esplode in rete facendo volare il media value. Quest’anno, però, le cose sono andate diversamente a Milano. Al di là di brand eccentrici come Diesel, Sunnei, Marco Rambaldi, Cormio o Roberto Cavalli – il guardaroba proposto dalle ultime sfilate viste la scorsa settimana è estremamente più signorile, più adulto. Persino Moschino ha abbandonato i palloncini colorati per i completi di tweed surrealisti ma comunque bon ton, mentre Blumarine ha organizzato uno show più cupo, serio e meno allegramente pop che in passato. I principali nomi della città, partendo da Prada e Armani e passando per Bottega Veneta, Tod’s, Jil Sander, Ferragamo, Dolce & Gabbana, Bally e Missoni (ne citeremo altri a breve) hanno optato per look più maturi ed eleganti, più adatti a una donna adulta e in carriera che a una tiktoker ventenne. Certo, il fatto che queste derive old money abbiano dominato la stagione milanese non significa che il sesso sia scomparso dalle collezioni – abbiamo avuto un gran numero di trasparenze, aderenze, nudità esibite o suggerite, non di meno molta della frivolezza Y2K degli scorsi anni pare decisamente attenuata. I brand parlano a nuovi clienti che forse non postano video su TikTok ma che probabilmente entrano in boutique per comprare un full look invece che una cintura e basta. Che la moda stia finalmente de-colonizzando e smettendo di appropriarsi delle culture giovanili in nome del binomio di attualità e novità?
Il risultato di questo ritorno a una adulta elevatezza e a un decoro a volte cerebrale è stato piacevole ma, soprattutto, è parso segnalare un cambio di marcia in cui la moda inizia a rivolgersi a audience più mature che ai teenager. Da Prada, ad esempio, la sfilata ruotava intorno all’idea dell’importanza del quotidiano e del modesto, sull’idea di “bellezza con uno scopo” attraverso reinterpretazioni di uniformi sia lavorative, come quelle di infermiere o soldati, sia sociali, come l’abito da sposa – una serie di look così equilibrati e disadorni che sia Gigi Hadid in passerella che Charli D’Amelio in front row (con indosso un castigatissimo tubino grigio) sembravano il ritratto di un’altolocata e concettuale austerità. Invece da Gucci, a quanto si dice, gli influencer sono stati informalmente invitati a contenere colori, orpelli e stampe per look che rompessero col massimalismo di Alessandro Michele in linea con uno show dominato da abiti da cocktail, perle, completi, cappotti. I più espliciti però sono stati Serhat Isik e Benjamin A. Huseby di Trussardi che hanno dichiarato di essersi ispirati proprio alle signore della Milano bene, le “sciure”, per la loro collezione più sofisticata finora creata per Trussardi. Letimotiv di tante sfilate (e anche del guardaroba di tante “sciure” milanesi) è stato poi il cappotto di pelliccia - finta, con buona pace degli animalisti. Apparso tanto da Trussardi quanto da Bottega Veneta, Gucci, Bally, Calcaterra, Del Core, Dolce & Gabbana, Missoni, Ferragamo, Armani, Max Mara, MSGM e via dicendo, questo capo simbolico dell’haute bourgeoisie ha fatto un ritorno forse non prepotente, ma sicuramente abbastanza diffuso da poter essere definito un trend considerato come anche Glenn Martens abbia mandato una pelliccia in passerella. Altrove, e in diverse declinazioni, abbiamo visto un trionfo di strascichi, di blazer dalle ampie spalle, di party dresses metallici e, in certi casi, anche di layering che coprivano la pelle che scolli e orli lasciavano esposta all’aria. Tutti abiti per occasioni “adulte”, che immaginiamo indossati a ricevimenti eleganti, riunioni d’affari in cima a grattacieli, mostre d’arte e prime teatrali – ma non su TikTok.
Che la moda abbia perso fiducia nel variopinto mondo teen che, fino a qualche anno fa, saccheggiava allegramente alla ricerca del prossimo trend? In faccia a difficoltà economiche, crisi finanziarie e in un mondo in cui «le cose crollano e il centro non può tenere», i clienti della moda (quelli veri, che vengono invitati anche agli show) non vogliono baloccarsi con prodotti di lusso ironico o performativo ma sono più interessati a riaffermare il proprio status socio-economico e culturale. La moda di questa stagione milanese non provoca, almeno non direttamente, ma afferma con cognizione di causa il proprio tenore di vita e, per certi versi, la sua dignità. Lo fa in maniere ora intellettuali, ora solenni, ora decadenti e decostruttive – ma lo fa. Alle collezioni di questa stagione milanese sembra interessare poco la sexyness ostentata e l’iconoclastia mentre i brand paiono corteggiare la propria clientela creandone un riflesso idealizzato – il lusso affascina non più con la sua assenza ma con la sua apparenza più materialistica, ma non sotto forma di meta-segnale o rimando pop, non con i loghi, ma con l’opulenza di pellicce, pizzi, pellami esotici e satin. E se, nella capricciosa Londra, J.W. Anderson può ancora vendere borse dalla forma fallica e Mowalola può fare ironie sui loghi, mentre Simone Rocha e Di Petsa si abbandonano a romantiche fantasie, a Milano pare tornata la seriosità da grande industriale, l’alterigia dei salotti altolocati e delle loro abitanti che bevono il tè da Cova e da Sissi, pranzano da Bastianello e, come canta Popa, vanno ai vernissage di Via Statuto. Che sia finalmente arrivata l’ora della sciura?