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L’amicizia tra Karl Lagerfeld e Anna Piaggi

Cosa accomuna il Kaiser della moda e la dandy dell’editoria

L’amicizia tra Karl Lagerfeld e Anna Piaggi Cosa accomuna il Kaiser della moda e la dandy dell’editoria

Prima dell’avvento della rivoluzione digitale e prima che la parola storytelling andasse a depositarsi nell’enciclopedia mentale di qualsiasi nativo web 2.0, la moda si raccontava principalmente sulle passerelle e sui giornali. Da questi due universi, separati soltanto dal calendario di una fashion week e di un editoriale in uscita, provengono due grandi creativi della scena internazionale: Anna Piaggi e Karl Lagerfeld. Uniti da una visione della moda totalizzante e fortemente aspirazionale, Anna e Karl hanno condiviso un’amicizia che andava al di là del front row.

Lei è stata una giornalista di moda per Vogue Italia, Vanity Fair e Il Messaggero, che maneggiava la moda come un testo da cui «prendeva una parola in inglese per poi aggiungerci un finale un po’ latineggiante o un francesismo poi imbastardito con dell’italiano per fare una parola dal suono atmosferico alle sue pagine, alla sua visione di quel mese». Lui un designer in bilico tra l’austerità tipica di chi prende sul serio il proprio talento e la leggerezza associata alla moda, il cui motto può essere riassunto nella frase «un bozzetto è meglio di aghi, fili e tante parole». Il legame fra i due era quasi del tutto inevitabile: per Karl la moda non è mai stata arte fino a se stessa, quanto piuttosto un’illustrazione a trecentosessanta gradi della contemporaneità. Illustrazione che per Anna Piaggi aderiva a dei canonici estetici precisi e riconoscibili, del tutto sovrapponibili alla poetica del dandismo. Anna è stata una fashion curator ante litteram, Karl il direttore creativo per eccellenza. «Poi conobbe Karl Lagerfeld e fu un altro grande amore, molto proficuo. A casa di Anna e Alfa passavano tutti: lì ho conosciuto Karl, Walter Albini, Paloma Picasso, Ken Scott. Era un periodo incredibile! Nello studio di Alfa, completamente rivestito di carta stagnola come la factory di Warhol, c'era anche Antonio Lopez. Io sono cresciuta così: quello che so della moda lo devo a loro!» ha raccontato Carla Sozzani a Vogue Italia.

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Di quell’amicizia restano dei bozzetti realizzati e custoditi in un diario da Karl in persona, tra il 1973 e il 1984, in cui il corpo e l’immagine di Anna costituiscono il pretesto narrativo per parlare nient’altro che di moda.  La prima volta avvenne quasi per caso, usando il tovagliolo di un ristorante cinese per ritrarre un’Anna Piaggi con un ventaglio e l'inconfondibile ciuffo ondulato sulla fronte, tagliato di fresco nel salone londinese di Vidal Sassoon. Da lì i disegni si moltiplicarono e presero la forma di schizzi a inchiostro o acquerelli ambientati per lo più in casa - Bretagna, Montecarlo, Parigi, Roma, Firenze o Londra le location di riferimento - per immortalare il manifesto vestimentario di una creativa graficamente irriverente. Ne è nato una sorta di portfolio parlante curato successivamente dalla Fondazione Sozzani e dall’Associazione culturale Anna Piaggi che, nel 2021, ne hanno fatto una mostra. Anna Piaggi non è stata semplicemente una musa, né una modella per Karl Lagerfeld: è stata la personificazione vivente di ciò che rappresentava la moda a livello profondo per il designer. La stessa Judith Clark, che nel 2006 aveva dedicato una mostra di approfondimento al personaggio di Anna Piaggi (Fashionology), racconta di «come la grandiosità del suo abbigliamento non era direttamente proporzionale all'evento: al contrario, accadeva che riservasse le sue mise più sensazionali per un intimo pranzo informale a casa Lagerfeld, in sintonia con i mobili settecenteschi e che magari a un ballo in maschera si recasse invece in abito da padrona». «Anna Piaggi conosceva e amava la moda. La usava come luogo dell’immaginazione e della definizione di un suo personalissimo progetto vestimentario. Non era stravagante» si legge nelle note a piè di pagina su un post Instagram di Maria Luisa Frisa

Uno scenario che, a volerne replicare le logiche oggi, risentirebbe di una commerciabilità o di una strategia pr che nulla avrebbe a che vedere con la spontaneità di uno slancio creativo in senso lato. Di quell’amicizia resta anche il ricordo di un’editoria in grado di contribuire a segnare in maniera molto più pervasiva il sistema moda, facendo delle scelte - è forse questo il senso del lusso? - lontane dalla prevedibilità e dall’obiettivo di proporre casse di risonanza dei valori di un brand. Ad Anna interessava essere l’autrice di uno stile letteralmente irreplicabile, piegando la moda a spettro temporale a cui attingere liberamente  e consapevolmente. A Karl importava liberarsi dalle incombenze del quotidiano per costruire un linguaggio estetico visivamente accattivante. C’è chi direbbe che Anna Piaggi e Karl Lagerfeld sono stati due privilegiati - il processo di mitizzazione che ha investito entrambe le figure ne ha sicuramente esasperato alcuni aspetti - perché hanno plasmato l’immaginario di un’epoca avvertita come meno scomoda. Chissà se sia stato effettivamente così. Bisognerebbe interrogarli, chiedere di nuovo il loro punto di vista. Qui, però, possiamo al massimo rievocarli.