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Tranquilli, odiare gli infuencer è diventato perfettamente normale

La moda ha un problema, la dipendenza dai "volti noti"

Tranquilli, odiare gli infuencer è diventato perfettamente normale La moda ha un problema, la dipendenza dai volti noti

Se le Fashion Week mi hanno insegnato qualcosa è di moderare sempre e comunque l’uso di Instagram durante i giorni delle sfilate. Perché lì, nei feed spesso motivo di pace e tranquillità, si vanno a moltiplicare senza alcuna logica le foto degli influencer, di chi c’era e ci tiene a farcelo sapere a tutti i costi. «Ma chi è questo?» mi chiedo mentre scorro le foto dello show di Balenciaga. Abbiamo le stesse scarpe, ma se per me averle ha comportato mesi di incessante stress ai dipendenti dello store, una stretta allo stomaco prima di poggiare la mia carta sul POS e qualche giorno di sensi di colpa, per lui sono invece una delle tante storie #gifted da pubblicare durante la settimana. L’ennesimo pacco che finirà in qualche angolo di casa dopo l’ennesima passerella immortalata nel suo feed immacolato. «Ma che fine aveva fatto A$AP Nast?» chiedo a qualcuno mentre lo vedo scendere dal suo van con i vetri oscurati. È ovunque, oggi a Parigi e qualche giorno prima a Berlino. Mi chiedo come faccia, ma soprattutto mi chiedo perché lo faccia, cosa lo eleva allo stato di “persona meritevole di vivere la vita che qualcuno di noi sogna”. Quella delle sfilate, delle feste e degli outfit sempre nuovi che va allo show di Balenciaga pensando che la Georgia sia una malattia venerea.

«C’è anche quella di Euphoria insieme a quell’altro, ma che lavoro fa?». Non lo so, e probabilmente a questo punto sono anche troppo stanco per provare a decifrare delle criptiche bio di Instagram in cui emoji e raccolte fondi si uniscono senza alcuna logica. Ma mi rendo conto che fare l’influencer non è un lavoro semplice, ci vuole dedizione, ma soprattutto tanta pazienza, oltre a una certa faccia tosta per chiedere a qualcuno dei vostri amici di scattarvi almeno una ventina di foto in mezzo alla strada come se improvvisamente il resto della popolazione mondiale fosse scomparsa. In effetti, tu che hai le mie stesse scarpe le porti molto meglio di me e anzi, nel tuo feed c’è una foto che è esattamente come quella che avrei voluto fare io ma che, un po’ per mancanza di capacità e un po’ perché dopo un po’ anche basta, non ho mai fatto. Per questo un po’ ti stimo anonimo influencer, presenza costante degli street style con il dono dell’ubiquità, te che alterni una toccante Instagram Story sull’Ucraina con una in cui ringrazi il brand per la hoodie da 800€ che ti hanno regalato. 

Tranquilli, odiare gli influencer è diventato perfettamente normale. Sentiamo che ci hanno rubato la vita, che per qualche motivo a noi inspiegabile sono autorizzati a non lavorare un giorno della loro vita pur recitando benissimo la parte di quelli che lo fanno in un cortocircuito che azzera la meritocrazia creando crossover da incubo in cui Kim Kardashian siede a pochi metri da Vanessa Friedman e Tim Blanks. Ma se mettiamo da parte l’odio, ci rendiamo conto che forse oggi, tra i tanti problemi della moda, c’è proprio l’uso e abuso dei volti, delle presenze alle sfilate in full outfit che dovrebbero farci sognare e che invece ci fanno solamente rimpiangere la nostra routine mettendo spesso in discussione le ambizioni di quel manipolo di folli che ciclicamente decidono di riporre i propri sogni in un mondo che i sogni li mangia a colazione. Sembra assurdo che nell’epoca del Web 3 e del Metaverso, nell’epoca in cui un brand può comunicare con i propri acquirenti anche attraverso lo schermo del frigorifero, si debba ricorrere a Alexa Demie o a Evan Mock per invogliarci all’acquisto o anche solamente per creare reputation intorno a un brand. Ma ha senso? Quanti di quelli che guardano Euphoria diventeranno dei clienti di Balenciaga? Sicuramente meno di quelli che si chiederanno il motivo della presenza di Polo G a una delle sfilate più importanti degli ultimi anni. 

Forse, proprio per questo, il nostro non è odio, ma solo fastidio per l’idea che si sono fatti di noi, di quelli che osservano e guardano le lunghe sfilate di volti più o meno noti, troppo ingenui per apprezzare qualcosa senza vederla indossata dalla protagonista di una serie Netflix e in qualche modo complici di un meccanismo che sta progressivamente allontanando la moda da chi la apprezza di più di un'anonima influencer che si riprende mentre mangia un avocado toast ma che siede negli show anche grazie a noi, ai nostri like e all’importanza che le diamo. Ma se è vero che “haters gonna hate”, io ancora non ho capito cosa c’entra A$AP Nast lì in mezzo.