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È arrivato il momento di tornare a fare magazine di carta?

Come i contenuti editoriali si adattano ai supporti su cui si diffondono

È arrivato il momento di tornare a fare magazine di carta? Come i contenuti editoriali si adattano ai supporti su cui si diffondono

Allo Spazio Maiocchi di Milano, 1.000 metri quadrati di loft trasformati da quelli di Slam Jam in un luogo per eventi culturali, si svolge ogni ultimo weekend di Novembre SPRINT, il salone degli editori indipendenti e dei libri d’arte. Organizzato dall’associazione non profit O’, SPRINT offre spazio gratuito ad una selezione di pubblicazioni di editori indipendenti che difficilmente avrebbero visibilità fisica in altro modo. Quando ci sono stato il mese scorso - dopo essere stato severamente redarguito dai miei ganci millennials Giulia Geromel e Sofia Del Bene perché non sapevo cosa fosse - mi sono trovato davanti ad un ribollire di gente interessata alla creatività in formato cartaceo e da nostalgico delle stamperie mi è sembrato di essere atterrato nel passato. Che invece era un posto nel presente e forse un pò nel futuro.

Nella moda in realtà la situazione sembra piuttosto confusa: licenziamenti a raffica sono stati portati a termine dalle principali case editrici di magazine cartacei come Hearst (Marie Claire e Elle) e Condè Nast (Vogue) e alcune testate (Glamour in Italia, Marie Claire in America) hanno semplicemente cessato di esistere. D’altra parte in UK sono riapparsi sia The Face, storica rivista di moda e musica, che Rolling Stone, la bibbia musicale che in America continua a vendere 700.000 copie al mese. Sembra esistere uno scollamento tra editoria tradizionalmente mainstream, quella che parla a tutti di tutto, e una nuova editoria di nicchia che, esattamente come sui social media, parla di argomenti precisi ad un gruppo altrettanto preciso di persone. Funzionano infatti alla grande progetti come The Gentlewoman, Buffalo, Industry, 032C, Fantastic Man, Dazed, I-D, Dust che hanno creato intorno a sé un following inscalfibile e quasi religioso. Ma in realtà ogni giorno nascono progetti editoriali cartacei indipendenti.

La verità di questa situazione chiaroscurale è che nel 2021 nessun giornale può più tenersi in piedi con i metodi tradizionali degli investimenti pubblicitari e delle vendite. O comunque non del tutto. Ognuno dei sopracitati progetti è infatti il centro di un hub costituito quasi sempre da un’agenzia creativa che è in grado di produrre contenuti o eventi per ogni tipo di cliente che sia interessato al suo linguaggio oltre che alla sua audience, come se i magazine cartacei fossero la parte visibile di una complessa struttura sommersa in grado di dare servizi estremamente riconoscibili e precisi e un punto di vista personale di cui i brand, affogati in un mondo di omologazione, hanno sempre più bisogno. In questa abitudine che esiste da un pò di tempo vengono però messe sullo stesso piano la creazione di contenuti estremamente diversi tra di loro: articoli da 20.000 battute per la carta stampata, articoli da 2.500 battute per il web, shooting fotografici o video sia per il digitale che per il cartaceo, strategie di social media e strategie di comunicazione in genere. Come se contenuti anche molto diversi potessero avere una matrice comune che li renda gestibili nello stesso modo. In realtà scrivere 20.000 battute per un long form o scriverne 200 per una caption non sono per niente la stessa cosa e se qualcuno di voi un giorno decidesse di aprirsi un magazine cartaceo è meglio che lo sappia.

La qualità, parola estremamente abusata che anche da un punto di vista etimologico indica la caratteristica della selezione, della scelta, ha spesso perso il suo significato originario ed è stata sostituita dalla sua controparte, la quantità. Nessuno si aspetta di trovare su TikTok, su Instagram o su YouTube contenuti di qualità e per quanto questo discorso suoni terribilmente da boomer è molto più facile trovare approfondimento e selezione in robe vecchie come i giornali di carta. La difficoltà che si delinea all’orizzonte nel riprendere in mano uno strumento come il magazine cartaceo è appunto la qualità. Esattamente come un vinile restituisce in maniera impietosa l’attenzione che è stata data al suono di ogni singolo strumento, voce compresa, così la carta ci rimane in mano abbastanza a lungo da farci fare riflessioni estremamente serie spingendoci ad esprimere giudizi più articolati sia per la parte della scrittura che per quella delle immagini. E così siamo arrivati al punto nodale. Un giornale è uno strumento culturale per elezione ed è stato immaginato per reggere contenuti sostanziosi, lunghi, approfonditi, forse anche noiosi. Un social media invece non è stato creato per essere un luogo di riflessione ma di scambio veloce, di socialità appunto che non è in genere fatta di dialoghi socratici ma di fulminee prese di posizione, di botta e risposta, di interazioni rapide. Entrambi sono sistemi complessi ma estremamente diversi ed è infatti molto difficile trovare progetti che si muovano da un mondo all’altro mantenendo una uguale profondità di messaggio e di linguaggio.

Il tema della gestione della qualità dei contenuti è ciò che emerge in forma di pressante richiesta da questo ritrovato amore per l’editoria cartacea e per quanto sia possibile trovare approfondimento anche alto sui social media questa osmosi è solo all’inizio. Fare giornali di carta pesanti, costosi, lenti, difficili e profondi non dovrebbe essere il modo per mettere una medaglia al valore su progetti che si nutrono in realtà di velocità e superficialità ma dovrebbe diventare un mezzo formativo per chi la pesantezza e la lentezza le ha incontrate solo sui banchi del liceo e le ha odiate e per chi, vivendo ogni giorno guardando un telefono, potrebbe scoprire che la qualità dell’approfondimento ha qualcosa di intrinsecamente attraente. Molto, ma molto di più di un balletto di suore.