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Perché il futuro della sneaker culture si scrive in Cina?

La crescita di Li-Ning e Anta potrebbe minacciare l'egemonia di adidas e Nike

Perché il futuro della sneaker culture si scrive in Cina? La crescita di Li-Ning e Anta potrebbe minacciare l'egemonia di adidas e Nike
Il team cinese alle Olimpiadi di Tokyo
Li-Ning & Erik Ellington
Soulland x Li-Ning
Soulland x Li-Ning
Soulland x Li-Ning
Soulland x Li-Ning
Il team cinese alle Olimpiadi di Tokyo
Xi Jinping
Il team cinese alle Olimpiadi di Tokyo
Li-Ning & Erik Ellington
Mao Zedong
Mao Zedong
Mao Zedong
Deng Xiaoping negli USA
Deng Xiaoping negli USA
Scarpe della Liberazione
Scarpe della Liberazione
Scarpe della Liberazione
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
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Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
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Li-Ning A/W 21
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Li-Ning & Erik Ellington
Li-Ning & Erik Ellington

Non importa quanta storia abbiano già scritto alle spalle: la supremazia di adidas e Nike nella sneaker culture cinese potrebbe star giungendo al termine. Stando a quanto riportato da Jing Daily quest’anno, il valore di mercato del brand cinese Anta è già pari a 64 miliardi di dollari. Che, a paragone con i 74,37 miliardi di dollari corrispondenti al valore di mercato di adidas, lascia presupporre quanto terreno abbia rapidamente guadagnato il marchio Made in China, in aggiunta, i problemi causati dalla pandemia alla supply chain dell’industria delle sneaker uniti alle politiche della Cina stanno cambiando gli equilibri mondiali consolidati per secoli. La rapidità con cui la Cina si muove nelle sue strategie di sviluppo è indiscutibile. Anzi, quasi sconvolgente se consideriamo che tra adidas, Nike e i due competitor cinesi Anta e Li-Ning, passa quasi mezzo secolo di storia. Mentre nel 1949 Adolf Dassler fondava adidas e 15 anni più tardi Bill Bowerman fondava Nike con il nome di Blue Ribbon Sports, la Cina stava per entrare in quello che è rimasto alla storia come il cruento decennio della Rivoluzione Culturale di Mao Zedong (1966-1976). Come spiega Juanjuan Wu in Chinese Fashion: From Mao to Now, “la moda non fu soppressa durante la Rivoluzione Culturale. Adottò però una maschera differente, non certamente dipinta di colori vibranti”. La stretta di potere dell’allora leader del Partito Comunista Cinese guidò tacitamente il popolo verso la cosiddetta pǔsù 朴素, la sobrietà. Lontano dal mondo occidentale – dove Nike e adidas sperimentavano senza sosta colori e materiali innovativi da associare alle performance tecniche degli atleti – la Cina faceva invece i conti con ciò che poteva e non poteva indossare.

Scarpe della Liberazione
Scarpe della Liberazione
Scarpe della Liberazione
Deng Xiaoping negli USA
Deng Xiaoping negli USA
Mao Zedong
Mao Zedong
Mao Zedong

Il regime totalitario di Mao Zedong consentiva i lǎo sān sé 老三, i “tre antichi colori”: blu, verde militare e grigio. E mentre la tuta sportiva guadagnava fama in occidente (con l’imporsi anche della logomania di Nike e adidas), un completo di tutt’altra impronta acquisì considerazione tale da essere associato dai cinesi persino al tailleur Armani: la tuta alla Mao. La si indossava con le scarpe abbinate, ovvio, ma non di certo con le sneakers che tutti stavano sfoggiando in Europa e Stati Uniti. “Le scarpe in tessuto blu o grigio, fatte a mano in casa, erano molto popolari tra la gente comune – scrive ancora Juanjuan Wu. – Poi c’erano le cosiddette ‘scarpe della liberazione’: realizzate in canvas e con suola in gomma, erano pezzi di lusso indossati dai pochi che potevano permettersi un’uniforme militare. Questo tipo di divisa ebbe un effetto di lunga durata sul guardaroba cinese. Ancora oggi, nei piccoli villaggi in Cina, è possibile vedere qualcuno indossare vestiti, cappellini o scarpe delle vecchie divise militari”. La fine della Rivoluzione Culturale e la morte di Mao Zedong nel 1976, così come l’avvento del nuovo leader del PCC Deng Xiaoping (promotore del programma "Riforma e apertura" del 1978), spianarono la strada a una rinascita dell’industria della moda che abbracciò ovviamente anche il settore sneakers. Dieci anni dopo la visita di Deng Xiaoping negli USA (primo leader del PCC che abbia mai compiuto tale impresa ai fini diplomatici), il ginnasta cinese Li Ning fondò a Pechino l’omonimo marchio sportswear oggi conosciuto come Li-Ning. Nel 1991 fu la volta di Anta Sports, nato per opera di Ding Shizhong: ora la Cina aveva finalmente gettato le fondamenta per una sneaker culture 100% Made in China.

Il team cinese alle Olimpiadi di Tokyo
Il team cinese alle Olimpiadi di Tokyo
Il team cinese alle Olimpiadi di Tokyo
Xi Jinping

Giappone, trent’anni dopo. Le Olimpiadi di Tokyo hanno rappresentato per tutti i brand sportswear una grande vetrina, all’interno della quale non ha rinunciato a trovare la sua fetta di visibilità anche il marchio Anta, sponsor ufficiale del team cinese. Come conferma Jing Daily, le sneakers Anta hanno presenziato nella performance di 777 atleti (tra cui quella del sollevatore di pesi Lü Xiaojun, già medaglia d’oro ai giochi olimpici di Londra 2012), di cui 88 saliti sul podio. Per inciso: in un Paese come la Cina, in cui il patriottismo è sentito più che mai per ovvie ragioni politiche (oggi alla guida del PCC c’è il leader Xi Jinping), indossare un brand cinese è indubbiamente motivo di orgoglio nazionale. Specchio della potenza mondiale che rappresenta, la fonte riporta che Anta non punta certo ad avere solo la stima del mercato cinese, ma a diventare il secondo marchio sportivo più importante dopo Nike.

Soulland x Li-Ning
Soulland x Li-Ning
Soulland x Li-Ning
Soulland x Li-Ning
Li-Ning & Erik Ellington
Li-Ning & Erik Ellington
Li-Ning & Erik Ellington
Li-Ning & Erik Ellington

Ci riuscirà? Ad ora, la strada è quella giusta: Anta – oltre a rappresentare un prodotto cinese nel senso creativo e qualitativo del termine (rompendo così lo stereotipo del Made in China come accezione di bassissima qualità) – sa come comunicare con il suo mercato (lo stesso che Nike e adidas avranno dovuto indubbiamente studiare per sopperire ad eventuali gap culturali). Non meno fondamentali per la brand awareness di Anta sono le collaborazioni con gli atleti cinesi, quali il danzatore Wang Yibo, la sciatrice freestyle Gu Ailing, il giocatore della NBA Klay Thompson e soprattutto Salehe Bembury, uno dei nomi più importanti dello sneaker game che lo scorso anno ha creato le Anta SB-02 creando un ponte di congiunzione tra le sneaker culture orientale e quello occidentale. Una direzione opposta è stata presa invece dal brand di sneakers cinesi Li-Ning, che lo scorso 26 marzo ha annunciato la collaborazione con Xiao Zhan (membro della band cinese X NINE) come global ambassador del marchio. Nella campagna pubblicitaria, Xiao Zhan è stato ritratto con un total look Li-Ning per generare esattamente la tipologia di fenomeno verificatasi pochi minuti dopo la pubblicazione della foto: l’effetto sold-out. 

Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
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Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21
Li-Ning A/W 21

Infine, a svantaggio delle vendite di Nike e adidas in Cina (ma anche di molte altre case di moda) c’è recentemente stato un fattore politico: la protesta sul cotone proveniente dalla regione dello XinJiang. La denuncia che i media occidentali hanno esposto lo scorso marzo contro la Cina fa leva sul lavoro forzato a cui sarebbe sottoposta la minoranza etnica degli Uiguri che lavora appunto nei campi di cotone nello XinJiang. E proprio perché è “difficile scoprire la verità” (citando il titolo di Mimi Lau per South China Morning Post), molte aziende occidentali hanno smesso di acquistare cotone cinese proveniente da tale zona. Di rimando, i cinesi hanno boicottato i marchi occidentali, Nike e adidas inclusi. La conseguenza ovvia? Jing Daily conferma che il profitto di Li-Ning è aumentato del 4,2% (quantificabile in 2,2 miliardi di dollari). Una preferenza non casuale, motivata senz’altro dal desiderio di indossare brand Made in China specchio di valori patriottici e nazionalisti. Una preferenza che chiude il cerchio e conferma la tesi: e se il futuro della sneaker culture si scrivesse proprio in Cina?