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Non è solo uno store

La mistica dei negozi Supreme: dal primo a SoHo fino all’ultimo appena aperto a Milano

Non è solo uno store La mistica dei negozi Supreme: dal primo a SoHo fino all’ultimo appena aperto a Milano

Oggi a nominare la parola Supreme si pensa quasi immediatamente ad un rettangolo rosso con la parola stampata in Futura Bold Oblique. Come un déjà vu il brand è riuscito ad incastonare nella cultura e memoria collettiva il proprio logo grazie ad un brand building particolare, unico, che è già entrato nei libroni di marketing. Si parla del mondo del resell, delle collaborazioni, della scarsità artificiale ma spesso non si da la dovuta attenzione all'elemento cardine del brand: gli store. Supreme infatti prima di essere un brand è nato come negozio e non ha mai fatto - eccetto per alcuni brevissimi periodi - distribuzione fuori dalla rete delle attuali tredici location sparse per il mondo, inclusa quella di Milano appena inaugurata in Corso Garibaldi. Lo store dai suoi primi giorni fino ai camp-out è il luogo dove la mistica del brand, alimentata dalla storia, dal resell e molto altro, prende presenza fisica con una ritualità ciclica che rende l'esperienza di entrare da Supreme diversa da ogni altro store. 

Era la primavera del 1994 quando James Jebbia, ex commesso di Union e Stussy, affittò con un anticipo di 12mila dollari le mura di un spazio decrepito al 274 di Lafayette Street, Manhattan, New York City. Nella prima metà degli anni '90 la città era ancora ancora cupa, piegata prima dal default finanziario e poi dalla prima grande ondata del crack; la città non offriva lavoro, aveva il tasso di criminalità più alto degli Stati Uniti e molte aree centrali vivevano nel degrado e nell'abbandono; Taxi Driver e I Guerrieri della Notte sono due film che restituiscono la narrazione dell'epoca. Nonostante povertà e problemi sociali, i marciapiedi di New York rimanevano un posto dove diverse culture si influenzavano a vicenda: gli skater di Washington Square (raccontati da Harmony Korine e Larry Clark in Kids), la black community di Harlem, gli artisti squattrinati di SoHo. A Lafayette Street si incontravano spesso spacciatori o prostitute, e i negozi erano principalmente piccole attività di famiglia, ma c'era anche il leggendario pop store di Keith Haring. Il processo di gentrificazione di SoHo era già avviato, ma ci sarebbe voluto ancora qualche anno prima che giungesse a compimento, con le gallerie indipendenti che si sarebbero trasferite al di là del ponte di Brooklyn, a Williamsburg. 

Jebbia era cresciuto nella Londra delle sottoculture di fine anni '80, dove store come Sex avevano indicato la via, ma soprattuto aveva lavorato in alcune delle primi store street di NYC: Parachute, Union e poi aveva convito Shawn Stussy ad aprire il primo store del brand a New York. Jebbia si interessava di alta moda - era e probabilmente è ancora oggi un fan di Helmut Lang - e di sottoculture, non era uno skater, né un'artista, ma riuscì a sintetizzare la ricchezza delle varie influenze che le strade di New York mettevano a disposizione creando un negozio che offriva un singolare mix di elementi. Lo spazio del primo store era arioso e luminoso - strano per un negozio di vestiti da skater - i prodotti erano piegati maniacalmente sugli scaffali in un ordine svizzero, in vetrina c'erano dei televisori a tubo catodico che trasmettevano in loop video di Muhammad Ali, scene di Taxi Driver e video di skater. Un penetrante odore di fiori e corteccia si sentiva nell'aria, per gli incensi Nag Champa - che rimarranno una tradizione del brand - mentre la casse suonavano Enter the Wu-Tang (36 Chambers), il primo album del collettivo newyorkese, il disco che proprio in quel periodo rivoluzionò l'hip-hop americano. Un passante spaesato avrebbe pensato più ad una galleria d'arte d'avanguardia che ad uno skate shop ed entrando magneticamente attratto dal boxlogo rosso ci avrebbero pensato i commessi a fargli capire dove si trovava e che non era necessariamente il benvenuto. 

Gli skater colonizzavano il negozio passando pomeriggi a fare trick e bere birra, e alcuni di loro iniziarono a lavorare nello store diventando poi delle figure cult dell'underground newyorchese come Giovanni Estevez, detto "Gio", e Aaron Bondaroff. Per la cultura skate - non essendo un sport con regole e punteggi - l'attitudine è tutto: real recognizes real, per questo il negozio era un punto di ritrovo dei Kids di Larry Clark e finì per attirare anche tutta la scena artistica underground dell'epoca, tra questi lo street artist Rammellzee e l'attrice Chloë Sevigny. L'alta moda delle boutique patinate era a galassie di distanza, nonostante un visionario articolo pubblicato nel 1995 sull'edizione americana di Vogue, proponeva un ardito paragone tra il negozio di Chanel al 57 della Fifth Avenue e quello di Supreme. Una dei punti in comuni era l'onnipresenza del logo, l'altro era l'esclusività dello store che da Chanel era alimentata dal prezzo, da Supreme da una non meglio precisato stato: coolness, in italiano non c'è un modo per tradurlo. 

Si racconta che, per lavorare di meno, i commessi terrorizzavano i potenziali clienti dicendo: «Non toccare niente, finché non lo compri», in modo da non dover passare il tempo a piegare tutte le magliette che venivano provate. Un effetto straniante per il pubblico, che non di rado si trasformava in timore reverenziale, il quale a sua volta veniva inconsciamente tradotto in ammirazione e aspirazione, nel desiderio di far parte del club di Supreme. Come già accennato, si tratta di una dinamica simile a quella che accade nei luoghi sacri: le chiese, per esempio, sono costruite in modo da rendere tangibile e concreta la parola di Dio, il fedele che vi entra sperimenta un misto di timore (un semplice uomo al cospetto della grandezza di Dio) e aspirazione (desiderio di assurgere alla grandezza della divinità). Nel caso di Supreme, comprare diventa un atto di fede: significa entrare a far parte di un club di eletti. Certo, Bondaroff sostenne che la loro era stata solo una tattica pensata per lavorare di meno. Ma, al di là di tutto, questo scoraggiare e "terrorizzare" i clienti può a ben diritto essere considerato l'incipit della strategia di marketing di Supreme. L'aggressività nei confronti dei potenziali compratori è infatti tuttora una delle linee guida principali. Una strategia che oggi si traduce oggi in: scarsità e inaccessibilità al prodotto. Ed ecco che comprare continua a essere un atto di fede, perché nel momento in cui supererai nuovamente la coda all'ingresso e sarai di nuovo ammesso nel negozio, non è detto che quel determinato prodotto sia ancora lì per te. Questo crea nel consumatore un immediato e irrefrenabile desiderio, che ha come risultato nel breve periodo l'acquisto di quel determinato capo, mentre nel lungo il rafforzamento del culto del brand. In questo senso, entrare in uno store Supreme, assume il significato di una prova iniziatica. Ed è sempre stato così, sia che si tratti di possedere la stessa attitude degli skater underground del 1994 sia di passare la notte accampati sul marciapiede nel 2019 per non perdersi un nuovo prodotto. Il punto non è comprare un oggetto. Il punto è essere lì e far parte di quella comunità. Non è un caso che le attuali tredici location mondiali di Supreme siano tutte molto simili a quella di Lafayette Street, soprattutto per quanto riguarda l'organizzazione minimalista degli spazi e la conseguente patina sacrale. E proprio come nei luoghi sacri, è vietato estrarre il cellulare per scattare fotografie o fare video.

Anche l'attitudine dei commessi non è mai cambiata e la figura dello store manager è sempre stata affidata durante le varie aperture personaggi OG della scena skate locali, non a caso a Milano sarà Gianluca Quagliano. Quello che è cambiato negli anni sono le location e i quartieri - a Milano è a Brera, a Parigi nel Marais a San Francisco a Market Street - ma sopratutto il pubblico: dagli skater del '94 agli hypebeast degli ultimi anni. Si possono fare molti discorsi speculativi sull’imborghesimento del brand e sul fatto che sia arrivato alla quotazione di due miliardi di dollari (e di proprietà di un grande gruppo come VF Corp) diventando esattamente quello che nel '94 prendeva in giro e disprezzava, eppure c'è una coerenza - a volte ironica, a volte surreale - nella capacità che ha avuto Supreme nell'interpretare la realtà, i cambiamenti sociali ed estetici. I riti degli skater sono stati sostituiti dai drop online, i pomeriggi passati davanti lo store a fumare e skateare dai camp-out, gli idoli da teppisti di strada sono diventati gli influencer. 

Oggi Lafayette Street è una delle vie più belle di SoHo, dove case e negozi hanno prezzi astronomici e al posto di spacciatori e skater ci sono coffee shop che servono un ottimo matcha tea. Nel 2019 Supreme ha lasciato definitivamente la location dove nacque e questo credo che sia in definitiva quello che rende unico un brand nato su un marciapiede di New York e diventato oggi un'attrazione turistica in una via dello shopping della Capitale della moda di Milano: attraversare la moda, l'estetica e la cultura rimanendo rilevante.