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Virgil Abloh, Tyler e quelle parole pronunciate ai Grammy

Generalizzare è discriminare

Virgil Abloh, Tyler e quelle parole pronunciate ai Grammy Generalizzare è discriminare

Quest’anno, accettando il suo Grammy Award per il Miglior Album Rap, Tyler The Creator ha pronunciato un discorso per denunciare la discriminazione razziale che si nasconderebbe dietro l’assegnazione dei Grammy Award:

Fa schifo come ogni volta che noi - e intendo gente come me - facciamo qualsiasi cosa che sfida le regole di un genere o che è diversa loro la mettano sempre nella categoria Rap o Urban. Non mi piace quella parola 'Urban' - è solo un modo politicamente corretto per dire quella parola con la ‘n’”. 

Ma, dato è stata coniata negli anni ’70 dal DJ afroamericano Frankie Crocker per definire la propria eclettica selezione di R&B e disco music, si potrebbe dire che l’etichetta di “urban contemporary music” non costituisce un termine discriminatorio. Inoltre il genere musicale di un artista come Tyler The Creator non è classificabile in nessun’altra categoria diversa dall’urban o dal rap, non trattandosi né di pop, né di rock, né di un altro specifico genere. 

Al di là di ogni polemica sul campo musicale, le dichiarazioni di Tyler hanno risuonato al di là del mondo musicale, spingendo Virgil Abloh a commentare in risposta a Tyler sul proprio account Instagram: “Provo lo stesso sentimento quando sento la parola ‘streetwear’”. La chiosa di Abloh aggiunge un’importante sfumatura di significato alle precedenti dichiarazioni del designer circa il tema dello streetwear. Tanto “urban music” quanto “streetwear” sono infatti termini razzialmente codificati cioè, per parafrasare Tyler, modi politicamente corretti di dire quella parola con la “n”, che relegano in maniera acritica e spesso grossolana prodotti culturali magari diversi fra loro in una medesima categoria soltanto in base all’appartenenza etnica  dei loro creatori. Per quanto riguarda il termine “streetwear”, un tipo di estetica casual derivata sia dalla cultura surf/skate della California che da quella hip-hop sviluppatasi a New York fra gli anni ’70 e ’80, esso è venuto a indicare tout court l’abbigliamento casual rappresentato da hoodies, t-shirt e sneakers – un intero mondo di riferimenti culturali che una generazione di designer afroamericani  ha utilizzato come punto di partenza per il proprio lavoro.

Il problema sorge quando il lavoro di quegli stessi designer, pur distanziandosi dallo streetwear in senso stretto, viene fatto ricadere automaticamente in questa categoria. Kerby Jean-Raymond, fondatore di Pyer Moss, vedendosi relegato in questa categoria disse qualche anno fa: 

Il lavoro dei creativi neri deve essere sempre sottovalutato per un verso o per l’altro [...]. Non accettiamo più categorizzazioni o classificazioni di gruppo per descrivere il nostro lavoro, perché portano a essere accantonati in gruppo. Tutti gli abiti vengono indossati per strada ma se ‘streetwear’ prima definiva brand che producevano magliette o ispirati dallo skate ora è un termine usato per definire senza impegno il lavoro di designer che l’establishment ritiene subalterni”.

Simili affermazioni hanno fatto Kanye West (“Possiamo avere la migliore opinione sulle t-shirt, ma se è qualunque altra cosa la vostra barchetta di The Truman Show colpisce il muro”) e Samuel Ross (“Creare qualcosa che richiede tempo e sforzi e molto lavoro dietro il processo creativo e vederla subito categorizzata come streetwear mi sembra scorretto”)  ed effettivamente la ritirata dello streetwear sulle passerelle a vantaggio di un’accentuata sartorialità vista di recente sulle passerelle di Telfar, A-COLD-WALL*, Off-White e Louis Vuitton rappresenta il tentativo di questi designer di emanciparsi dall’etichetta e inserirsi, come meritano, nel mainstream del discorso culturale. 

In ultima analisi le parole scritte da Abloh in lode di Tyler sono un riflesso di questa lotta per la normalizzazione. Questo concetto, nella sua accezione originaria, si riferisce alle tattiche tramite le quali una società controlla il comportamento dei suoi membri. Ma la normalizzazione che questi creativi invocano serve loro a riprendere il controllo della propria narrativa e ruolo sociale, non solo evitando di farsi relegare a facili categorizzazioni, ma eliminando le categorizzazioni stesse e forse anche l’ingombrante concetto di “normalità” che presuppone sempre un escluso e un diverso. Se le precedenti categorie erano una maniera di organizzare la realtà, il lavoro di questi creativi ci mostra che servono nuove categorie e nuove realtà.  È necessario insomma smettere di identificare uno specifico creativo con il suo background etnico e lì relegarlo e invece valutare la sua produzione – in qualunque campo essa si esprima – come qualcosa di a sé stante, che porta con sé tracce dell’identità del suo creatore ma il cui valore estetico non si risolve totalmente in essa.