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La Fashion Week si sta allontanando da Milano?

Un bilancio - negativo - della Milano Fashion Week appena trascorsa

La Fashion Week si sta allontanando da Milano? Un bilancio - negativo - della Milano Fashion Week appena trascorsa

Finisce la Fashion Week a Milano ed è immediatamente tempo di bilanci: l’impressione è che si sia fatto un passo indietro rispetto a giugno e febbraio, che si sia inciampati ancora una volta nella gelosia di voler tenere gli show lontani dagli appassionati, limitandosi al consenso degli addetti ai lavori. La Settimana della Moda non è riuscita a mantenere un legame con la città, non ripetendo gli esempi delle stagioni scorse, che avevano valorizzato aree secondarie della città. 
Il sentimento generale nei confronti della MFW è ancora quello di scetticismo e scarso entusiasmo, in particolare per i brand simbolo della settimana ma che sembrano aver fatto il loro tempo, faticando a rinnovarsi. 
La Milano Fashion Week SS20 doveva essere quella dei grandi cambiamenti, quella della riforma del calendario, che puntavano a favorire tutti i tasselli della macchina organizzativa. A luglio le case di moda si erano riunite insieme alla Camera Nazionale della Moda, scegliendo di distribuire i grandi nomi in modo più equo, aprendo con Prada e chiudendo con Gucci. La riforma del calendario aveva l’obbiettivo di trattenere i buyer e forse c'è riuscita, a mancare è stato però un dialogo con la città, che andasse oltre murales e cartelloni da instagrammare. 

I numeri della moda italiana potrebbero tranquillamente smentirci, con fatturati in crescita e oltre i 95 miliardi di euro nel 2018. I guadagni sono tuttavia l’ultima conseguenza dell’hype e della scelta di puntare su un numero maggiore di collezioni, più alla ricerca di quantità che di qualità e originalità. 
Qual è quindi il peccato maggiore della Fashion Week? Non saper replicare i buoi risultati al quale si era arrivati non più tardi di 6 mesi fa.
Moncler in occasione della FW19 aveva presentato il suo progetto di riqualificazioni dei Magazzini raccordati in Stazione Centrale, creando un precedente di sinergia perfetta tra moda e tessuto cittadino, tanto semplice quanto facile da imitare. Il progetto di Moncler era stato ambizioso e aiutato dal comune, questo senza dubbio, ma che dire della valorizzazione del cavalcavia del Parco dell’Acqua, nel quartiere Rubattino, diventato Bianco Sunnei? Uno spazio che non nasce con la pretesa di prendersi la scena della città ma per lasciare un segno sulla cartina geografica, discreto quanto riconoscibile. 

Il fatto che la Milano Fashion Week non sia riuscita a capire l'importanza di ripetere questi progetti è un ulteriore segnale che non ci sia una linea di direzione calcolata. Non intervenire sulla città porta la moda a non avere un distretto nel quale rendersi riconoscibile. Il quadrilatero di Via Montenapoleone e Via della Spiga è una grande vetrina, ma guardando le scelte di location dei brand, a distanza di un anno non vediamo un progetto che parli a Milano. 
Gli show e gli eventi della SS19 erano distribuiti in larga parte nella zona sud ovest di Milano, mentre in questa stagione la nostra mappa ha evidenziato come la moda si sia spostata tutta verso nord est, tagliando fuori dai grandi appuntamenti la zona Porta Genova e Tortona, ironia della sorte quella occupata dai grandi uffici della moda e dagli showroom. Il cambiamento non ha però portato a ridisegnare la mappa della moda milanese né tantomeno creare nuovi centri, preferendo location già ampiamente utilizzate come la Rotonda della Besana, Piazza Lina Bo Bardi, L'Accademia di Brera o la Tiennale. 

Nessun brand si è legato alla città, a parte chi - come per esempio Prada - ha deciso di ritagliarsi un quartier generale preciso nel quale riconoscere ogni stagione la propria visione. Non si registrano party indimenticabili, in numero inferiore rispetto al calendario delle scorse edizioni, così come gli eventi, a dimostrazione della distanza che c'è tra la moda e i cittadini. 
Pensare a una moda inclusiva non è un'utopia, ci sono esempi che lo confermano e che possono essere applicati anche ai big brand. A New York un segnale di cambiamento è stato lanciato da Tom Ford, neo presidente del Council of Fashion Designers of America, che ha promosso si un calendario più omogeneo e concentrato come nel caso della CNMI, ma favorendo show aperti al pubblico, come lo spettacolo teatrale di Pyer Moss, per il quale la direttrice Kerby Jean-Raymond ha messo in vendita al pubblico 500 biglietti.
Non può essere una scusa far notare che i nomi della Milano hanno un importanza maggiore di Pyer Moss, tant'è che prima Alexander Wang al Rockefeller Center di NY e poi Balmain hanno sperimentato con successo un formato di sfilata diversa, uno spettacolo aperto ad un pubblico più ampio. La maison francese ha presentato la sua SS20 uomo durante la Fête de la musique, una celebrazione musicale annuale che si svolge nelle strade di Parigi, in pratica un grande palco sul quale sfilavano i modelli di Olivier Rousteing accompagnati dal DJ Gesaffelstein. 
A NY si sono visti anche show collettivi di brand minori, i quali hanno aperto le porte al pubblico incoraggiando la condivisione e il senso di comunità, tenuto a galla a Milano solo dagli eventi dello streetwear come Sneakerness.

Questo atteggiamento di chiusura e quasi di gelosia della moda italiana nei confronti di sé stessa danneggerà il sistema italiano? Sicuramente ci sono segali di una crisi della quale molti grandi nomi sono i primi responsabili. Basteranno ancora tradizione e storia per rivoluzionare il sistema moda o il cambiamento deve venire da idee fresche? La cosa certa è che in un momento in cui la città riesce ad avere una buona sinergia con arte e design - un esempio su tutti la Design Week -, la moda non può pensare di bastare a sé stessa.