
E se l'America smettesse davvero di importare fast fashion? Pro e contro dei dazi trumpiani contro la moda americana Made in Asia
Come se la vita non fosse già complessa per i lavoratori del settore fast fashion, costantemente schiacciati da pressioni come la paga misera (a cui si aggiungono spesso i casi di furto salariale), orari estenuanti e condizioni di lavoro non sicure a causa anche dei pesticidi e di altri agenti chimici utilizzati nelle fabbriche e nelle piantagioni, recentemente si è aggiunto un nuovo problema. In un nuovo articolo di Vox, la giornalista Sara Herschander si interroga sul futuro dei garment workers in India adesso che Trump ha indotto dazi al 50% sulle importazioni del paese. Da quando le tariffe americane sono entrate in vigore, scrive Herschander, le fabbriche facenti parte della «cintura tessile» indiana si sono quasi completamente fermate. I turni di lavoro sono diminuiti e, di conseguenza, il tasso di suicidi tra i coltivatori di cotone - un fenomeno in precedenza già gravemente diffuso nel Paese - è in aumento. Se i brand americani dovessero smettere di produrre in Asia, demotivati dai prezzi troppo alti una volta accessibili, quale futuro toccherà al settore del fast fashion e ai suoi impiegati in India, così come in Vietnam e Bangladesh?
“India is talking to America. But we will not negotiate with a gun pointed at our heads. So if there’s a tariff on us, we have accepted it. We will look for newer markets as well,” declares Commerce Minister Piyush Goyal pic.twitter.com/3QIqXnOGE2
— Shashank Mattoo (@MattooShashank) October 24, 2025
Tra i brand americani che hanno subito il maggiore impatto sulle proprie importazioni a causa dei dazi trumpiani ci sono Gap, Lululemon, Nike (che però lavora principalmente con le fabbriche vietnamite), H&M, Inditex (Zara, Mango) e Primark ma anche Levi's, che commissiona i jeans in Lesotho, nel sud dell'Africa. Malgrado le condizioni lavorative di chi opera nel settore del fast fashion possano ancora migliorare, molto del progresso socio-economico avvenuto in Est-Asia dai primi anni 2000 in poi - quando i brand di abbigliamento hanno scoperto che era più economico produrre in India invece che in Cina, per esempio - è proprio dovuto al settore del fast fashion. Traguardi piccoli ma consistenti che, se dovesse venire meno la collaborazione tra le fabbriche e i grandi marchi, potrebbero venire persi per sempre. In India e in Vietnam, il tasso di educazione della popolazione è aumentato e la percentuale di persone che vivono in situazione di estrema povertà è diminuito anche grazie al lavoro fornito dalle supply chain. Senza contare che, in questo settore, spesso sono proprio le donne a venire assunte in quanto sarte o tessitrici, un'opportunità non da meno per il genere che nei Paesi meno sviluppati fatica ancora ad affermarsi e a rendersi indipendente.
Gli effetti dei dazi americani sul fast fashion si vedono già. Negli ultimi quattro mesi, le esportazioni dall'India sono diminuite del 40%. Dopo la Cina, l'India rappresenta al momento il Paese più importante al mondo nella produzione tessile, uno status che se i dazi dovessero rimanere in vigore potrebbe svanire nel nulla insieme a tutte le conquiste raggiunte dai lavoratori nel settore. Migliaia di contadini e agricoltori sono adesso scesi in piazza per protestare contro le tariffe e la decisione da parte del governo indiano di non intervenire. Il futuro del fast fashion e delle mani che lo creano, adesso, è affidato a Trump e Modi. Il che, possiamo aggiungere, non promette bene.













































