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Wolf Man, i mostri non sono stati mai così noiosi

Forse Ryan Gosling ci aveva visto lungo

Wolf Man, i mostri non sono stati mai così noiosi Forse Ryan Gosling ci aveva visto lungo

Ryan Gosling sarebbe dovuto essere il protagonista del nuovo Wolf Man, pellicola appartenente alla ricostruzione dell’universo dei mostri della Universal. Fortuna per lui che se n’è tirato fuori prima. A prendere il suo posto Christopher Abbott, volto angusto e tenebroso di un cinema solitamente indipendente e torbido che però non manca di fare le proprie capatine in opere mainstream e comunque geniali come Povere creature!. L'allontanamento da parte di Ryan Gosling è stato dovuto alla convergenza di accavallamenti e sovrapposizioni di diversi progetti che però gli hanno permesso di contribuire al film come produttore esecutivo, visto il suo coinvolgimento iniziale. A conti fatti, col titolo pronto a uscire in sala - in Italia dal 16 gennaio - viene da domandarsi se Gosling non avesse fiutato qualcosa che lo abbia portato ad abbandonare la nave prima ancora che salpasse.

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La possibilità che Gosling abbia deciso di abbandonare Wolf Man a causa della sceneggiatura stonerebbe però con la presenza dell'attore nei crediti del film, visto che la Universal aveva accettato di collaborare con lui proprio per le intuizioni di alcune sue idee che potrebbero essere finite nello screenplay definitivo. Il regista che all'inizio avrebbe dovuto dirigere il film, Derek Cianfrance, è tra l'altro un professionista con cui Gosling aveva condiviso i traumi dei protagonisti di Blue Valentine e Come un tuono. Cianfrance, però, in Wolf Man alla fine viene sostituito da Leigh Whannell che, proprio nell’anno in cui Ryan Gosling esponeva il proprio disegno sull’ammodernamento della storia di Wolf Man, riscuoteva un meritato plauso per l’ottimo lavoro svolto con un altro dei nuovi vecchi mostri della Universal, L’uomo invisibile. Era il 2020, la storia mescolava la figura orrorifica con una narrazione incentrata sul concetto di stalking e violenza di genere, finendo per essere una riflessione intrattenitiva su un pericolo reale della società raccontato attraverso il genere horror. 

Sebbene l’abbandono da parte di Cianfrance e di Gosling non poteva promettere nulla di buono, è pur vero che quando Whannell ha accettato di prendere in mano le redini del film aveva ancora una tale libertà creativa da poter rivedere e adattare a proprio piacimento il racconto, pur magari mantenendo salde le intuizioni che erano piaciute alla Universal e portate dal precedente duo. Il regista, così, si mette al lavoro per stendere la sceneggiatura insieme alla moglie Corbett Tuck e il resto è, purtroppo, storia. Una brutta storia. Quella di Blake (Abbott), genitore della piccola Ginger (Matilda Firth) e marito della giornalista Charlotte (Julia Garner). La famiglia non-così-felice decide di fare un viaggio per ritrovarsi, prendendo come occasione la scomparsa del padre di Blake e ritornando nella sua casa di quando era bambino, in mezzo agli alberi e alle montagne dell’Oregon. Un modo per staccarsi dalla città, passare del tempo insieme, scoprire inediti paesaggi. Se non fosse che qualcosa di terrificante si aggira con fare famelico nel mezzo dei boschi che avvolgono l’abitazione di quando era ragazzino, costringendo la famiglia a nascondersi ed affrontare una delle notti più spaventose della loro vita.

Se non è la leggenda dell’uomo lupo a colpire lo spettatore, in questo caso rivista pur partendo sempre dal soggetto di Curt Siodmak e del suo film del 1941, è di sicuro il senso inspiegabile e insopportabile di immobilità che pervade la nuova versione. Una sensazione di noia che non matura e che dà subito il benvenuto al pubblico, fin da un prologo lunghissimo in cui la perdita dell’attenzione si comincia ad accusare dal minuto due: il Wolf Man di Leigh Whannell ha un effetto soporifero. Un incantesimo indecifrabile che non viene mai spezzato durante la visione breve ma all’apparenza dilatata della pellicola, la cui eccessiva placidità costringe lo spettatore ad accorgersi di tutte le incongruenze di cui si farcisce l’opera che non riesce a unire insieme il senso di paura e l'indagine della condizione genitoriale, temi centrali del film. Fin dal principio, infatti, il racconto pone la lente di ingrandimento sul rapporto che Blake aveva col padre, pur limitandolo ad una sequenza iniziale anonima, poco esplicativa se non fosse per la miriade di storie simili che sono state prodotte in precedenza nel corso della storia del cinema. 

@universalpicturesit

La loro vacanza si trasformerà in un incubo. Wolf Man, al cinema dal 16 gennaio.

suono originale - Universal Pictures Italy

È per questo che, appena il film si sposta in città e all’età adulta del protagonista, lo vediamo vestire i panni di un genitore premuroso, attento alla sicurezza della figlia, che concentra le proprie giornate e le proprie attenzioni sulla bambina. Proteggere è il verbo che farà da collante alle varie fasi della pellicola; il ritorno ciclico del senso di difesa della propria prole, mostrata in maniera brusca dal padre di Blake che, a propria volta, decide di essere il contrario del genitore che ha avuto. Se però, in L’uomo invisibile, Whannell era stato in grado di utilizzare adeguatamente gli stilemi dell’horror per fuoriuscire poi dal genere e raccontare degli abusi subiti dalla protagonista di Elisabeth Moss, in Wolf Man la narrazione è talmente tirata da finire per strapparsi e fare acqua da tutte le parti. L'opera provoca una tale indifferenza nello spettatore che si finisce quasi per non fare caso al brutto trucco che trasforma l’uomo in lupo o alla mal riuscita decisione di raffigurare la diversa percezione dello sguardo e dei suoni tra umani e creature. Forse, è stato davvero un particolare sesto senso ad aver detto a Ryan Gosling di scappare - una prontezza che però è mancata a tutti gli altri.