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Sanremo, la Rai e perché la musica non è una festa

«TeleMeloni ha colpito ancora»

Sanremo, la Rai e perché la musica non è una festa «TeleMeloni ha colpito ancora»

Qualche settimana fa ci sarebbe sembrato improbabile associare le immagini di violenza verificatisi fuori dalla sede Rai di Napoli e Sanremo, il Festival nazional popolare per eccellenza, culla dell’italianità nella sua accezione più pop. Eppure, l’ultima edizione condotta da Amadeus ha fatto emergere un cortocircuito preoccupante, mettendo in luce la libertà (o la sua assenza) nell’esprimersi su cause politiche nella televisione pubblica ed evidenziando un shift importante nella narrativa da essa promossa. Dallo «stop al Genocidio» pronunciato da Ghali sul palco sino al «Cessate il Fuoco» di Dargen D’Amico: se da un lato non stupisce che un palco e uno spazio televisivo vengano legittimamente utilizzati dagli artisti per veicolare un messaggio - in questo caso la vicinanza alla causa palestinese e la condanna al genocidio - ciò che sorprende e preoccupa davvero sono le reazioni a catena che tali dichiarazioni hanno suscitato ai vertici delle istituzioni. Ma per analizzare il fenomeno nella sua interezza, per azzardare a fare chiarezza tra le sue derive - dal comunicato di Roberto Sergio, AD Rai, letto da Mara Venier a Domenica In alle dichiarazioni di Amadeus da Porta a Porta - occorre andare per gradi. 

Tutta la politica di Sanremo

Sanremo, la Rai e perché la musica non è una festa «TeleMeloni ha colpito ancora» | Image 488136
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Sanremo è forse l’unico evento televisivo italiano in grado di farsi portavoce dei tempi e dei dibattiti che animano la contemporaneità. Negli ultimi anni la Gen Z vi ha finalmente rivolto lo sguardo, rendendolo una rassegna cross-generazionale che a tratti, in pochi attimi di veridicità in sei ore di canzoni e stacchetti, lascia trapelare un ritratto estremamente accurato di un’Italia variegata e contradditoria. Analizzando il picco di ricerche tra i telespettatori sulle tematiche politiche emerse durante le cinque serate del Festival, il 7 febbraio la parola “queer” ha visto un incremento di click del +2500% durante l’esibizione di BigMama dedicata alla comunità. Un aumento del +490% si è verificato nella stessa fascia oraria per il termine “bodyshaming”, a seguito dei commenti offensivi diffusi in rete sulla cantante avellinese. Il 10 febbario è stata la volta degli “agricoltori” (+270%), dopo che la protesta dei trattori è approdata sul palco sotto forma di un comunicato letto da Amadeus, un estratto di quello più lungo inviato dal gruppo Riscatto agricolo, che da giorni staziona con i trattori in Riviera. Il termine “napoletano” ha dominato invece le ricerche durante la serata cover, quando Geolier ha conquistato la vittoria a discapito di Angelina Mango suscitando fischi e scompostezza tra la platea in giacca e cravatta, un richiamo da parte del conduttore e complottismi anti meridionali in rete. A più riprese, il vero spotlight è stato per la Palestina - +1300% nella serata del 10 febbraio per “cessate il fuoco”, espressione pronunciata da Dargen il 10 febbraio +10’000 % per “genocidio” dopo le affermazioni di Ghali nella stessa data. 

Tutta la politica del post Sanremo 

L’esclation successiva alle esternazioni afferenti al conflitto parte da Domenica In il 12 febbraio: dapprima Mara Venier legge il comunicato dell'AD Rai Sergio che, rispondendo alle critiche dell'ambasciatore israeliano sulle parole di Ghali del giorno prima, esprime solidarietà a Israele. La conduttrice termina la lettura aggiungendo: «Queste sono parole che - ovviamente - condividiamo tutti». Successivamente interrompe Dargen D'Amico mentre parla - positivamente - di migranti: «Va bene, però qui è una festa, ci vorrebbe troppo tempo per affrontare determinate tematiche; qui stiamo parlando di musica e quindi chiedo scusa a tutti quanti». Ma la musica è davvero “una festa”? 

Secondo il sottosegretario della Lega Alessandro Morelli «gli artisti dovrebbero salire sul palco, fare la loro bella esibizione e andarsene», secondo Jonathan Zenti, autore e designer di podcast, «la musica, così come ogni altro prodotto culturale è sempre politica. (...) Pensare che un cantante debba “cantare” senza fare politica è come pensare di lavarsi le mani con l’acqua senza bagnarsi. Quello che certe persone stanno pretendendo non è “canta invece di fare politica”, ma “canta la politica che va bene a me”». Tra l’opinione pubblica e forse non a sufficienza sulle testate dei giornali si sono diffusi i termini  “censura” e “TV di partito”, «TeleMeloni ha colpito ancora» commenta Antonella Baccaro sul Corriere della Sera.

La Rai ha sempre restituito un riflesso più o meno fedele dei suoi vertici, ma in tempi in cui la politica vira verso una polarizzazione inedita, la libertà, di espressione rischia di soccombere ad una “narrazione di partito” se non "di regime". Uno scenario preannuciato già dalle dimissioni dell’ex AD Carlo Fuortes lo scorso maggio, seguito a ruota da Lucia Annunziata qualche settimana dopo: «Non condivido le modalità di intervento sull'azienda» disse la giornalista al Il Sole 24 ORE. Le escalation di violenza verificatisi fuori dalla Rai in viale Marconi a Napoli - cinque poliziotti e cinque manifestanti feriti durante uno scontro con tanto di manganelli - si inseriscono in un panorama in cui un certo tipo di politica di destra rappresenta una minaccia concreta non solo alla libertà di stampa ed espressione, ma alla democrazia tutta. Specialmente in un clima di populismo e paura no, la musica non può essere solo una festa come dice la Venier, anzi, non può esserci nessuna festa mentre si consuma un genocidio. E la TV, anche se pubblica, non può essere il riflesso degli ideali meloniani, soprattutto se essi minano i diritti fondamentali dei cittadini italiani. In un mondo in cui ci si dirige sempre più verso l’appiattimento culturale abbiamo ancora bisogno di voci fuori dal coro, per accorgerci che il problema è il coro stesso.