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Le serie tv non sanno più raccontare le realtà?

Euphoria, Gossip Girl e quel distacco incolmabile tra finzione e realtà

Le serie tv non sanno più raccontare le realtà?  Euphoria, Gossip Girl e quel distacco incolmabile tra finzione e realtà

Quando nel 2004 Lost fece il suo esordio negli Stati Uniti, il mondo delle serie tv si trovò davanti al proverbiale giro di boa. Da quel momento in poi la serialità televisiva non è stata più vista come un passatempo per la domenica pomeriggio, ma come un valido competitor del cinema capace, nel corso degli anni, di attrarre nomi sempre più altisonanti raggiungendo la qualità che tutti abbiamo imparato a conoscere con l’avvento delle piattaforme di streaming. Ormai media per eccellenza, le serie tv sono diventate più di un semplice divertimento, ma anche un mezzo capace di raccontare la realtà, dando voce a chi normalmente non l’avrebbe e aprendo scenari che fino a pochi anni fa non avremmo mai potuto vedere seduti sul divano del nostro salone di casa. Ma nella sua continua evoluzione, qualcosa sembra essere andato storto, portando la serialità televisiva all’interno di un cortocircuito in cui il “racconto della realtà” è diventato una caricatura della realtà stessa, slegato da quello che vorrebbe descrivere e spesso parodia involontaria.

In questo distacco dalla realtà, è impossibile non pensare immediatamente a Euphoria, la serie HBO con Zendaya che racconta la vita di un gruppo di adolescenti in una versione glamourizzata in cui fin troppe volte bisogna ricorrere alla sospensione dell’incredulità per apprezzare il vero pregio del lavoro di Sam Levinson, l’estetica. Impeccabile visivamente, la serie sembra spesso “troppo bella per essere vera”  portandoci a chiedere quanto una serie televisiva sappia ancora raccontare la realtà, ma soprattuto quanto ne abbia veramente voglia. “Per me non ha alcun interesse” aveva risposto Levinson in un’intervista rilasciata a Vulture in cui gli veniva chiesto quale fosse il suo interesse verso il realismo in Euphoria. “So che riceviamo spesso questa critica. E sì, non è reale” aveva concluso il creatore della serie, rispondendo involontariamente alla domanda sul rapporto tra le serie tv e il racconto della realtà. La risposta forse sta però nel mezzo, in un racconto di una realtà che vuole rappresentare un’altra faccia della stessa medaglia. Sarà anche per questo che gli influencer sembrano essere diventati una presenza fissa in diverse serie tv, un modo diretto per creare fin da subito un contatto con lo spettatore pronto a vedere una versione fittizia di un personaggio con cui ha già familiarità. Vale per il casting di Luka Sabbat in Grown-ish, ma vale soprattutto per quello di Evan Mock in Gossip Girl in cui il modello interpreta una versione riveduta e corretta di se stesso nel revival della serie andata in onda nel 2007 e qui costretta a fare i conti con un aggiornamento visivo e tematico. Se stilisticamente Mock e il resto del cast possono contare sul costume design di Eric Daman, già al lavoro sulla serie originale così come su Sex and the City, le storie degli studenti di un liceo privato di Manhattan rappresentano in pieno il distacco dalla realtà in cui ogni episodio sembra voler mettere una croce sulle caselle dei temi da trattare nelle vite di un gruppo di adolescenti secondo uno sceneggiatore di cinquant’anni.

È il rischio dei revival, quando un prodotto un tempo perfetto deve scontarsi con i tempi che cambiano per trasformarsi nella versione peggiore di stesso. Una parabola simile a quella di And Just Like That, il sequel di Sex and the City finito nelle ultime settimane al centro di più di una polemica per le scelte fatte da Darren Star per ripotare in scena Samantha, Charlotte e Miranda. Un po' come in Gossip Girl, anche qui l'evoluzione dei personaggi a distanza di anni dalla loro ultima comparsa televisiva ha finito per scontrarsi con la necessità, se non l'obbligo, di dover raccontare qualcosa di lontano dallo spirito del prodotto originale, finendo per rinnegarlo se non completamente almeno in buona parte. L'evoluzione di Miranda, raccontata da Sonia Rao sul Washington Post in “How Miranda went from ‘Sex and the City’s’ most relatable character to ‘And Just Like That’s’ most frustrating”, è l'esempio perfetto dello stato di buona parte della serialità televisiva, quella che preferisce pregiudicare la narrazione, la credibilità del racconto, per provare a intercettare i favori di un pubblico che, nell'epoca di Succession, è stato abituato decisamente bene.