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La storia del logo di Dior Dal 1946 ad oggi

In un mare di loghi all caps, qualche mese fa, dopo essere stato appena nominato come direttore creativo di Dior, Jonathan Anderson ha mostrato al mondo come la Maison sarebbe tornata ad usare il logotipo originario del 1946 di Christian Dior, usando Cochin come font. Come ha dichiarato Anderson stesso in un’intervista con Lois Prigent, il suo obiettivo con questo cambio di logo è quello di «decode it to recode it», un tabula rasa per tornare alle origini del brand per poi iniziare un nuovo capitolo creativo. A scomparire è l’all-capital “DIOR” in uso dal 2018: al suo posto riemerge una “D” maiuscola seguita da lettere minuscole, una scelta che riannoda la Maison alla propria grammatica tipografica. Per ora il cambiamento è visibile su etichette e dettagli tessili ed è affiorato, con misura, già nella sfilata uomo ed è diventato protagonista durante il suo debutto ufficiale di ieri nel womanswear per la stagione SS26. 

La storia del logo di Dior

Per capire la portata di questa mossa occorre tornare all’inizio. Quando Christian Dior fonda la casa nel 1946, sceglie una grafia che attinge alla tradizione francese: il carattere Cochin, disegnato nel 1912 da Georges Peignot e intitolato all’incisore del Settecento Charles-Nicolas Cochin. È un serif incisorio, con grazie affilate e un ritmo elegante, capace di tradurre in lettere l’idea di couture “architettonica” che Dior esprime con il New Look nel 1947. 

Negli anni successivi, l’identità visiva della Maison si stratifica. Accanto al logotipo “editoriale” in Cochin, nel 1967 Marc Bohan introduce l’ormai celebre motivo monogrammato “Oblique”: le quattro lettere di Dior si inclinano e si ripetono diagonalmente in un pattern jacquard pensato per accessori e pelletteria. Presentato al pubblico nella primavera 1969, l’“Oblique” diventa un secondo alfabeto della Maison, pronto a tornare ciclicamente, dai tempi di Galliano fino agli exploit recenti negli accessori. 

Come il logo di Dior è cambiato con i direttori creativi

Dagli anni Novanta in poi, l’alternanza tra logotipo tipografico e monogramma disegna una dialettica continua tra classicismo e desiderio di esposizione del marchio. Durante la direzione creativa di Hedi Slimane nei primi anni 2000 compare anche il nuovo logo del menswear, rinominato ora ufficialmente Dior HOMME, con un’aggiunta tutta in maiuscolo (diventata anche poi parte del branding del profumo omonimo).

Tra il 2016 e il 2018, c’è una svolta in senso opposto: come molti luxury brand, Dior semplifica il proprio segno in un “DIOR” tutto maiuscolo, più assertivo e scalabile sui touchpoint digitali, allineandosi alla stagione del cosiddetto blanding, l’omologazione dei loghi verso forme neutre e minimaliste. La svolta coincide con il cambio di direzione per entrambe le linee, con Maria Grazia Chiuri che nel 2016 prende in mano il womenswear e Kim Jones che succede a Van Assache alla guida della linea uomo nel 2018. Da lì, tutte le linee della Maison francese, dal beauty all’Haute Couture fino al packaging hanno seguito le nuove regole del branding, omologandosi al maiuscolo.

Il logo di Dior di Jonathan Anderson

@iwenttotheartschool Dior introduces a new logo in Cochin. Less bold, more refined — signaling a return to heritage and poetry. But is it evolution, or nostalgia? #Dior #Cochin #LogoDesign #PFW #ArtSchool Originalton - I WENT TO THE ART SCHOOL

Poi arriviamo al 2025, dove il gesto di Anderson si colloca controcorrente. Non è mera nostalgia ma è un’operazione di montaggio, come sottolinea lui stesso. Tornare al Cochin significa riattivare una voce storica e usarla come materiale vivo per un racconto contemporaneo. Il serif, con le sue micro-irregolarità e il suo peso “umano”, restituisce alla marca un timbro specifico in un paesaggio visivo appiattito; e, soprattutto, riallaccia Dior a una tradizione grafica francese (l’incisione, la stampa, l’editoria) che fa da sfondo culturale alla couture. C’è poi un tema di sistema. Il ritorno al Cochin non cancella l’“Oblique”: i due linguaggi sono complementari. Il primo governa il perimetro istituzionale tra etichette, cartigli, titolazioni, forse in prospettiva packaging e vetrine, mentre il secondo continuerà a vitalizzare superfici e texture, dal canvas delle tote alle tele jacquard, anche se ancora non è comparso del tutto nelle prime collezioni del designer irlandese. 

Il monogramma ha attraversato i decenni proprio perché dialoga, più che competere, con il logotipo. La novità firmata da Anderson ribilancia il rapporto, riportando il “testo” (la parola Dior) al centro, senza rinunciare al tessuto. È una logica coerente con il motto di Anderson, quello di decodificare per ricodificare. Prima si sgombra il campo dai segni ridondanti, poi si riassemblano i codici, couture, artigianato, tipografia, in un equilibrio nuovo. Se, come spesso accade, i loghi sono i veri editoriali dei brand, quello di Dior versione 2025 è un editoriale programmatico: non urla, ma orienta.