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L’opulenza decadente del Maison Margiela di Glenn Martens Un vero tour-de-force, che ha catapultato il designer belga nel mito del brand

La posta in gioco era alta, altissima. Dopo il decennio di John Galliano da Margiela, conclusosi con uno degli show Artisanal già entrato nella storia, non solo il debutto di Glenn Martens alla guida creativa del brand sarebbe dovuto avvenire proprio con una collezione Artisanal, ovvero di Haute Couture, ma la sfilata si sarebbe svolta nello stesso identico luogo, Le Centquatre, e con il medesimo allestimento che ebbe l’ultimo show Artisanal del founder Martin Margiela nel marzo 2009. Ma ieri sera Martens si è confermato come uno dei grandi maestri della nuova generazione di designer: il suo debutto per Maison Margiela è stato forse divisivo (su Internet, quelli che lo hanno amato hanno leggermente superato chi invece se n’è detto deluso) ma non si può assolutamente negare che abbia avuto al centro una collezione del tutto in linea con lo spirito originario del founder e con l’estetica caotica e decostruttivista di Martens stesso. La collezione vista ieri ha ricordato a ciascuno qualcosa di diverso: molti utenti social, dai gusti più mainstream, hanno citato i costumi di Dune; altri certe figure velate come quelle che si vedono nella statuaria dei palazzi di Bruges e nel cimitero Pére-Lachaise, i fantasmi di gesso del Castello di Vezzio, i dipinti di Memling e Van Eyck e persino certe scene di Sul globo d’argento di Andrzej Żuławski. La verità è che le ispirazioni, specialmente basate sull'arte di Bruges, erano lì ma la complessità del risultato finale non è scomponibile dalla semplice somma delle singole parti. 

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Sarebbe in effetti sbagliato voler appiattire il lavoro di Martens in una singola ispirazione, un determinato filone o in una certa parola come “gotico” o “distopico” per digerirlo meglio. Pur rimanendo profondamente se stesso, con la sua consueta energia, Martens si è gettato a capofitto negli stilemi e negli approcci sartoriali che fanno la cifra di Maison Margiela. Il gusto della decostruzione, del capovolgimento, dell'estetica surreale del bricolage erano tutti lui, con quella difficilissima mistura di ingegno e ingenuità che è così tipico di un brand il cui stile preciso è in realtà inafferrabile, che è più una filosofia che una certa silhouette - lo si riconosce solo quando lo si vede. C’erano diverse citazioni all’arte fiamminga, ad esempio, con le pitture a olio che decoravano i jeans, le giacche di pelle ricoperte da tappezzerie sbiadite che parevano uscite da un palazzo nobiliare di due secoli fa, i look ricoperti di piume che sembravano uscire da versioni accartocciate delle nature morte di Adriaen van Utrecht.  La collezione era apparentemente organizzata come una sorta di progressione: si iniziava dai vestiti trasparenti in plastica, forse i meno convincenti della collezione, e pian piano le stoffe prendevano il sopravvento, passando dai capi decorati a quelli di puro tessuto, avvolti e drappeggiati in maniera spettacolare sui modelli dal volto rigorosamente coperto. Questa è stata anche la sfilata che ha visto il ritorno delle celebri maschere in passerella: stupende le maschere-gioiello come quelle di Blazy, ma ancora più belle e sperimentali quelle di metallo contorto e martellato, quelle di cartapesta dove si intravedevano vecchie affiches riutilizzate e quelle che si tramutavano in esplosioni di organza, che riprendevano il tema floreale di certi abiti.

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Inizialmente cupa, la sfilata è andata ampliando il proprio respiro con il procedere dei look – un passaggio sottolineato anche dalla musica che è passata da una tremula chitarra iniziale a un assolo di chitarra elettrica per poi concludersi in una più teatrale ballata rock, la cui asperità comunicava bene il tipo di stile eroso e scorticato che Martens sta portando nel brand. E se diversi dei look ricalcavano le silhouette già tipiche del designer, specialmente gli abiti di tessuto cangiante e increspato che parevano fatti di metallo liquido. Anche l’evidente amore per il denim, dipinto e decorato, per le texture cangianti e illusorie e per la definizione dell’anatomia dei modelli, ma sempre in chiave Margiel-esca, faceva sentire la mano di Martens dietro alla collezione. Sicuramente, come si può leggere nei resoconti di chi ha potuto analizzare i singoli look da vicino, tra tessuti fatti di filo d’oro recuperati dai computer, drappeggi rinchiusi nella plastica riflettente, abiti dipinti e ricoperti di carta quasi fossero muri e costruzioni assolutamente labirintiche, Martens ci ha ricordato del disperato bisogno che la moda ha di concettualismo e cerebralità.