FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

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Il significato del Dandismo per i Black Dandy italiani L'intervista a Ikongo Roland e Victor Reginald Bob Abbey-Hart

Il significato del Dandismo per i Black Dandy italiani L'intervista a Ikongo Roland e Victor Reginald Bob Abbey-Hart

Il Met Gala 2025 non è stato solo una sfilata di celebrità in abiti spettacolari, ma un momento storico in cui l’eleganza nera è salita al centro della scena culturale globale. A dare il tono alla serata è stata un’apertura potente e carica di significato: un coro gospel diretto dalla pluripremiata Tasha Cobbs Leonard ha trasformato la scalinata del Metropolitan Museum in uno spazio sacro. Un’introduzione simbolica e spirituale che ha anticipato il vero cuore dell’evento — non il tappeto rosso, ma la mostra che lo ha ispirato. La nuova esposizione del Costume Institute, Superfine: Tailoring Black Style, allestita nella Cantor Exhibition Hall, va oltre l’estetica per diventare racconto, archivio, affermazione. Curata dalla studiosa Monica L. Miller insieme a Andrew Bolton, direttore del Costume Institute, questa mostra traccia una storia sartoriale diasporica fatta di stile, resistenza e visione. Dai completi dei ministri battisti del Sud ai codici estetici dei Sapeurs congolesi, fino alle creazioni concettuali di designer contemporanei come Wales Bonner, Martine Rose, Thebe Magugu, Kenneth Ize e Mowalola, la mostra riflette sul corpo nero come veicolo di espressione e sovversione.

Alcuni ospiti del red carpet hanno saputo accogliere e interpretare pienamente questo spirito. Colman Domingo in Valentino, con un completo ecclesiastico ispirato ad André Leon Talley; Usher, in un look gotico firmato Ralph Lauren; Zendaya, in due outfit curati da Law Roach, Janelle Monae ha indossato un abito su misura di Thom Browne in collaborazione con Paul Tazewell, caratterizzato da un design trompe-l'œil che rappresentava un "suit within a suit", completato da accessori come cappello a bombetta e monocolo, epitomizzando il dandyismo avant-garde, Teyana Taylor che indossava un ensemble ispirato allo stile zoot suit, composto da un completo bordeaux con spalle accentuate, cappello a tesa larga e bastone, omaggiando l'estetica afroamericana degli anni '40. La collaborazione con la costumista premio Oscar Ruth E. Carter ha aggiunto profondità storica al look, richiamando l'orgoglio e la resistenza culturale, ogni look portatore di una narrazione profonda, radicata nella storia e nella mitologia della diaspora africana. Dietro questi look non c'è solo estetica: c'è un intero ecosistema culturale e creativo nero. Stylist come Kollin Carter, Jason Bolden, Shiona Turini, costumisti come la premio Oscar Ruth E. Carter, e designer diasporici che collaborano con grandi maison (da Telfar x Dior a Bianca Saunders per Bottega Veneta) stanno ridefinendo le regole della moda globale, rifiutando l’assimilazione e affermando una nuova centralità.

Eppure, nonostante questa ondata di creatività consapevole, qualcosa si è perso per strada. Molti altri ospiti, pur vestiti con abiti spettacolari, hanno ridotto tutto a una questione di “look” ben riuscito. Quando il Black dandyism diventa solo una posa — e non un linguaggio, una genealogia, un atto estetico-politico — si corre il rischio di svuotarlo di senso. Cosa significa davvero il dandismo nero, oggi? È un’estetica? Una filosofia? Un gesto sovversivo? Nel linguaggio mainstream, ogni uomo nero vestito in modo elegante viene etichettato automaticamente come “dandy”. Ma il vero Black dandyism è molto di più: è consapevolezza, stile, resistenza, ironia, profondità. È un codice culturale costruito tra diaspora e modernità, tra affermazione identitaria e piacere personale. Per andare oltre le semplificazioni, abbiamo chiesto a due dandy italiani neri — laureati, professionisti, attivi nella moda e non solo — di raccontarci cos’è per loro il dandismo. Un viaggio tra eleganza, memoria e politica dello stile.

Chi sono i Black Dandy italiani

Chi sei e cosa fai?

IR: Mi chiamo Ikongo Roland, nato in Gabon e vivo a Torino. Laureato in scienze politiche e relazioni internazionali, ho studiato a Siena, prima di trasferirmi a Torino per lavoro. Accanto alla carriera accademica e professionale, ho una vera passione per la moda. Do molta importanza all'eleganza, amo i colori, i dettagli e distinguermi con il mio stile. Parlo diverse lingue: lo Nzébi, che è la mia lingua madre in Gabon, oltre a francese, inglese, italiano e coreano. Ho anche un forte gusto per i viaggi, che mi ispirano sia culturalmente che personalmente. Appassionato di sport, gioco regolarmente a calcio e a tennis, due discipline che mi aiutano a mantenere un sano equilibrio nella mia vita.

VBRH: Sono Victor Reginald Bob Abbey-Hart, nato in Ghana e residente a Bologna. Sono scultore, consulente, cool hunter e stilista specializzato in denim ho un marchio di abbigliamento chiamato Victor-Hart™, ora finalista per il premio Camera Moda Fashion Trust. Do un’attenzione particolare alla sartoria, perché sono cresciuto in una famiglia ove l’eleganza sartoriale la faceva da padrone e mia nonna cosi come mia madre erano sarte.

Come definiresti il dandismo?

IR: Per me è un codice visivo. Il modo in cui cammini, come guardi, cosa scegli di mostrare. Non è solo come ti vesti: è cosa racconti senza parole. Il dandismo è una postura estetica ed esistenziale in cui l'individuo plasma la propria identità come un'opera d'arte, affermando la propria singolarità attraverso l'eleganza, il distacco e la provocazione. Incarna una sottile resistenza alle norme sociali e politiche, coltivando la forma come atto di rivolta.

VRBH: Per me il dandismo è il possesso e la manifestazione dell'interesse per il proprio aspetto, per il gusto, ed è anche esprimere le proprie emozioni attraverso i colori, le texture, i materiali, l’innovazione del proprio linguaggio nella moda. È fare casting superando etnie e culture che si intrecciano per far emergere nuove possibilità estetiche e comunitarie. È un linguaggio. Una forma di autocoscienza stilistica che arriva da lontano. Dalle piantagioni, dai club di Harlem, dalle vie di Dakar, dalle strade del Congo con i sapeur, fino all’Europa con l’estetica diasporica.

Cosa significa essere un Black dandy in Italia?

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VRBH: Essere ipervisibile. E quindi decidere di essere visibile a modo tuo, con grazia, forza e ironia. Il Black dandy è molto distintivo, con una libertà di espressione attraverso colori, musica, silhouette, un mix di culture differenti. Per esempio, l’eleganza italiana è molto rigida e piena di regole, mentre il Black dandy le sovverte.

IR: Significa non accontentarsi mai della rappresentazione che gli altri ti danno. Significa metterti in scena ogni giorno, con dignità e orgoglio. Essere un dandy nero in Italia significa affermare con eleganza e orgoglio un'identità spesso emarginata, rivendicando il proprio posto in uno spazio culturale che ancora fatica a rappresentare la diversità. È un atto di distinzione e resistenza, che unisce raffinatezza estetica e affermazione politica. Attraverso lo stile, decostruiamo gli stereotipi e ridefiniamo la presenza nera nella società italiana con un tocco particolare di eleganza, bellezza e colore.

Come ti relazioni con la moda nella tua vita quotidiana?

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VRBH: Come con una preghiera. È cura, scelta, narrazione. Ogni abito che disegno, creo o indosso è parte di una storia che porto con me. Per me la moda riguarda il comfort, indossare una bella giacca o un cappotto per liberarsi dagli stereotipi sociali su cosa debba essere la moda per la società. È una vera espressione di ciò che si mette insieme per comunicare le proprie emozioni, attraverso colore, genere, silhouette e interazione con le persone. La moda è un’armatura che mi protegge dallo sguardo stereotipato su cosa significhi “essere”.

VRBH: Non seguo le tendenze, seguo le mie radici. La mia estetica è diasporica e sartoriale. Nella mia vita quotidiana, la moda è molto più di una questione di apparenza: è un modo per esprimere chi sono, cosa sento e, a volte, anche quello che voglio dire senza parlare. Attraverso gli abiti, i colori e i tessuti che scelgo, racconto una storia, rendo omaggio alle mie origini o affermo una certa identità. Per me l'estetica è un linguaggio, uno strumento di comunicazione silenzioso ma potente.

Secondo te, il Met Gala ha interpretato bene il tema quest’anno?

IR: Sì, grazie al fatto che stavolta la curatela è nera. Monica L. Miller ha portato profondità, cultura, complessità. Il Met Gala 2025 ha interpretato molto bene il suo tema, “Superfine: Tailoring Black Style”, evidenziando l'eleganza e la storia del dandismo nero come forma di espressione culturale e politica. Personaggi come Rihanna e Pharrell Williams hanno incarnato brillantemente questo tema, combinando creatività, omaggio e affermazione dell'identità. L'evento ha anche dato una reale visibilità agli stilisti neri e indipendenti, sottolineando il desiderio di cambiamento verso una maggiore diversità e riconoscimento nella moda globale.

VRBH: È il primo Met Gala in cui ho visto davvero la moda nera trattata come arte e non come ispirazione esotica riferendosi all’exhibition. Il Met Gala aveva un tema davvero straordinario, ma l’interpretazione non era molto chiara guardando cosa indossavano gli ospiti. Penso che ci sarebbero dovute essere linee guida più rigorose, includendo anche riferimenti a designer neri — non può essere che l’80% dei designer siano bianchi, mentre si vuole rappresentare il Black dandyism per la comunità nera.

Il rischio nel banalizzare il concetto di dandismo

Il dandismo è storia, cultura, classe, provocazione. Se lo riduci a “vestirsi bene”, lo tradisci. Il rischio, quando si banalizza il concetto di dandyismo, è quello di svuotarlo del suo significato più profondo. Non si tratta semplicemente di “vestirsi bene”, ma di incarnare una storia, una cultura,una consapevolezza estetica che è insieme gesto politico e atto poetico. Il Black dandyism — o dandismo nero — è una lente critica attraverso cui leggere geografie, genealogie e generazioni di stile, ma anche le tensioni tra visibilità, potere e rappresentazione. In un momento in cui il Met Museum sceglie finalmente di celebrare questa estetica con rigore e profondità, attraverso una mostra che pone l’eleganza nera al centro della narrazione culturale, è fondamentale che anche il discorso pubblico abbandoni la superficie per riconoscerne la complessità. Il dandy nero non è una moda passeggera, né una silhouette da imitare: è una forma di sapere incarnato, un manifesto visivo che unisce passato e futuro, corpo e politica, desiderio e memoria. Come ricorda la curatrice Monica L. Miller: «La moda nera non è marginale: è centrale. È strutturale. Ed è tempo che anche le istituzioni lo riconoscano».