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Cosa sta succedendo al Gruppo Lanvin? La speranza è che il nuovo CEO e i suoi direttori creativi riescano a salvare il salvabile

Un tempo nome leggendario della moda francese, e a oggi il brand più antico di Francia, Lanvin è diventato negli ultimi anni un esempio dei problemi in cui un brand e un gruppo possono incorrere in un mercato che non è solo iper-competitivo ma che premia oggi, più di ogni altra cosa, la continuità di identità e visione. Ieri, l’ultimo report di Miss Tweed, forse la migliore specialista nello scovare segreti della moda in Europa, suggerisce che il Lanvin Group insieme agli altri marchi controllati dalla sua casa madre Fosun International sia in non poca difficoltà. Secondo Astrid Wendlandt, infatti, il Lanvin Group avrebbe iniziato a vendere i propri asset per raccogliere liquidità in un momento in cui i conti sono in rosso – e sono rimasti in rosso per anni dopo l’acquisizione da parte del mega-conglomerato cinese Fosun. Secondo le fonti del settore da lei interpellate, Fosun International sta cercando discretamente acquirenti per tutti i suoi brand, che includono Wolford, Sergio Rossi, Caruso e St. John Knits, senza però riscontri sul mercato. Non è chiarissimo però se questo significa che anche Lanvin potrebbe essere potenzialmente in vendita. Sempre secondo Wendlandt, edifici e fabbriche di proprietà di questi brand sarebbero già in fase di liquidazione, a testimonianza dell’urgenza della situazione finanziaria del gruppo. Attualmente il Gruppo Lanvin non ha commentato il report, ma anche studiando i suoi statement finanziari relativi al 2024, comunque, la situazione non pare rosea: nel corso dell’anno scorso il fatturato è sceso del 23%, arrivando a 329 milioni di euro, i margini lordi sono rimasti stabili al 56%, grazie a un miglior controllo dell’inventario e alla crescita del canale diretto al consumatore. Ma la perdita di EBITDA rettificato è aumentata fino a 92 milioni di euro, rispetto ai 64 milioni del 2023. Il profitto di contribuzione è crollato di 26 milioni di euro, contro un utile di 24 milioni l’anno precedente.

Tutti i principali marchi hanno registrato un calo dei ricavi: Lanvin ha perso il 26% di fatturato, con un margine di contribuzione negativo del 29%; Wolford ha perso il 30%, penalizzato da problemi logistici; Sergio Rossi ha registrato anch’esso un calo del 30%, con i costi fissi che hanno compromesso i margini; St. John ha visto un calo del 12%, nonostante un leggero miglioramento del margine lordo; Caruso ha contenuto le perdite a -7%, sostenuto dalla crescita a due cifre della propria linea diretta. Nonostante la dirigenza definisca il 2025 un "anno spartiacque", i numeri sono poco confortanti, specialmente considerato che non solo l’anno presente è di crisi generalizzata per tutto il lusso ma anche che mercati chiave come Europa/Africa/Arabia (detta area EMEA) e Cina sono in forte difficoltà. In particolare, l’area EMEA, che secondo Bamboo Works rappresenta il 44% dei ricavi, è risultata la regione con le peggiori performance. Le cose in effetti potrebbero cambiare con il nuovo management, dato che lo scorso gennaio, è arrivata la nomina di Andy Lew a CEO. La notizia ha aiutato nel mercato azionario dove il titolo è salito del 40%, aumentando la capitalizzazione di mercato di 70 milioni di dollari – e questo è stato un buon segno. Il suo compito dovrebbe essere quello di rifocalizzarsi sui mercati occidentali dopo un’eccessiva espansione asiatica che evidentemente non ha preso piede come ci si attendeva. Ma questa nomina è solo l’ultimo episodio in una lunga serie di rotazioni tra dirigenti e soprattutto direttori creativi. La direzione creativa di Lanvin è rimasta vacante per oltre un anno, fino alla nomina di Peter Copping lo scorso giugno. Anche Sergio Rossi ha avuto un vuoto creativo di quattro anni prima dell’arrivo di Paul Andrew, sempre l’anno scorso. A Wolford, il CEO Régis Rimbert ha lasciato dopo appena sei mesi. Un tipo di instabilità che fa soffrire brand che invece, in un contesto sfidante come quello in cui troviamo, avrebbero invece bisogno di essere monitorati da molto vicino.

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Per comprendere appieno la situazione attuale di Lanvin, bisogna tornare al 2018, quando Fosun International acquisì una quota di controllo della maison, promettendo di riportarla al suo antico splendore. Nel 2021, il gruppo si è ribattezzato Lanvin Group, con l’ambizione di diventare il LVMH cinese (non troppo diversamente Capri Holdings sperava di poter diventare il LVMH americano con Versace, che ora ha venduto). Ma già nel 2022 il Financial Times metteva in luce gravi criticità: una strategia di IPO tramite SPAC troppo complessa, conflitti con azionisti di minoranza, e previsioni di crescita troppo ottimistiche. Inizialmente si prevedeva che il fatturato sarebbe triplicato fino a quasi un miliardo di euro entro il 2025. Inutile dire che così non è stato, come si può vedere dai dati finanziari, i cui numeri non toccano nemmeno la metà di quella cifra. Gli analisti avevano già segnalato come grave problema la mancanza di una vera identità in Cina, che è stato il primo mercato in cui il neonato gruppo ha mirato a espandersi. Ai tempi di cui parliamo, Eric Young, fondatore di una boutique a Shanghai, disse al giornale: «La qualità c’è ancora, ma manca una storia. Quando i clienti vogliono comprare lusso, non pensano a Lanvin». Il fallimento nel cogliere l’opportunità cinese è lampante. Secondo le proiezioni Bain del 2021, la Cina avrebbe dovuto rappresentare il 25-27% del consumo globale di lusso entro il 2025. Oggi, invece, si attesta sotto il 13%, e le entrate di Lanvin nell’area sono deboli.

In breve, in questo momento, le difficoltà di Lanvin e del gruppo che a questo brand fa capo riguardano tanto l’identità quanto le finanze. Il gruppo ha tagliato i costi, venduto asset e cambiato management, ma continua a registrare perdite in un panorama del lusso sempre più competitivo e dove persino la sua nave ammiraglia, ovvero Lanvin, sta avendo difficoltà a navigare. L’arrivo di Andy Lew e di talenti creativi come Peter Copping e Paul Andrew potrebbe offrire un’occasione di riscatto. Ma senza una narrativa forte, un legame autentico con i consumatori e una struttura stabile, il futuro del marchio resterà dubbio.Quello del Lanvin Group non è un caso isolato. Fa parte di una più ampia ondata di fallimenti nei tentativi di espansione all’estero da parte di conglomerati cinesi durante gli anni 2010, quando il boom dello streetwear e della logomania convinse designer dilettanti e mega-gruppi esteri che per creare un brand di successo sarebbe bastato riversare capitali, ribrandizzare tutto con direttori creativi giovani e fare semplicemente ripartire i motori – ma così non è stato. Financial Times, già a quei tempi, citava i casi di Shandong Ruyi che aveva acquisito Aquascutum e Gieves & Hawkes o di Fortune Fountain Capital che aveva acquisito Baccarat concludendo però le proprie avventure in bancarotta o liquidazione. Ma questa spinta imprenditoriale ed espansionistica la vediamo molto alla Milan Fashion Week che ha visto l'arrivo, nelle ultime stagioni, di numerosi brand cinesi o posseduti da aziende cinesi che occupavano porzioni sempre più ampie del calendario maschile. Sia come sia, promessa di trasformare marchi storici in imperi globali non è stata di facile mantenimento - nel mondo del lusso non ci sono formule magiche