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Walter Albini e la questione dei “fashion revival”

È meglio un brand vecchio o un nuovo designer?

Walter Albini e la questione dei “fashion revival” È meglio un brand vecchio o un nuovo designer?

Il mondo della moda italiana ha accolto con entusiasmo la notizia del revival di Walter Albini annunciato lo scorso 9 maggio. Da un lato c’è l’ovvia opportunità di riscoprire il lavoro e l’importanza di un designer rivoluzionario grazie anche alla collaborazione di archivisti ed esperti del brand, dall’altro ci si domanda cosa succederà quando un lascito creativo così apprezzato e celebrato dovrà piegarsi alle ineluttabili leggi del marketing per poter vendere. Siamo ovviamente nel reame delle pure ipotesi, non si vuole gettare discredito ma, come si dice in America, «hope for the best, prepare for the worst».  Fin dalle prime comunicazioni, comunque, chi è dietro il revival ha precisato che il rispetto nei confronti dell’archivio sarà massimo e che si tratta (ci si passi il termine) di una speculazione con il cuore. In effetti le personalità coinvolte costituiscono una garanzia di autenticità: il grande investitore Rachid Mohamed Rachid è l’attuale CEO di Mayhoola for Investments e il presidente di Valentino e Balmain, i consulenti sono tutte persone vicine al lavoro di Albini, e dunque il valore filologico dell’operazione dovrebbe restare intatto. Tanto più se Alessandro Michele dovesse davvero diventare il direttore creativo del brand come molti dicono.

Ma, presenza di Michele a parte, come evidenziato da Fabiana Giacomotti de Il Foglio, questi revival presentano alcuni svantaggi imprenditoriali dato che richiedono investimenti nella restaurazione della brand awareness e corrono il rischio di essere fatti a pezza da stampa, esperti e puristi al primo passo falso. A questo noi potremmo aggiungere un terzo rischio, che è quello di seguire troppo pedissequamente l’archivio mettendo in dubbio la modernità stessa dell’operazione. Ma con ogni speranza, e considerato il calibro di archivisti e consulenti coinvolti, il revival di Walter Albini si concentrerà più sul riproporre un approccio e un punto di vista che sul riprodurre passivamente un archivio di oltre trent’anni fa. Come specificato dallo stesso Rachid, infatti, la formazione di una squadra del giusto calibro alla guida del brand è la sfida numero uno al momento. In generale però va detto che nella moda per ogni revival di successo (vedi Schiapparelli) ce ne sono dieci che potevano essere evitati. 

Quando si riporta in vita un brand defunto (la mania dei garbati eufemismi che sono oggi la regola imporrebbe di usare l’aggettivo “dormiente”) una reinvenzione è sempre necessaria e dunque, in assenza del designer originale, e in un contesto storico e commerciale completamente differente, quello del founder rischia di rimanere soltanto un nome sulla porta, una proprietà intellettuale, la maschera che camuffa l’identità di un altro designer del tutto diverso. Ma allora perché non eliminare l’intermediario e provare a finanziare il lavoro di creativi con il proprio brand e il proprio nome? La storia degli ultimi dieci anni, ad esempio, ci dice che il lancio di un brand ex-novo richiede forse più tempo per creare un heritage affidabile, ma porta ai più solidi successi: ai grandi nomi del lusso europeo, ad esempio, oggi affianchiamo il relativamente giovane The Row; negli ultimi anni, poi, l’intrinseco senso di novità portato da Jacquemus nell’industria ha attirato frotte di fan, lo stesso potrebbe dirsi di Peter Do, di ERL, Nensi Dojaka, Heliot Emil e Marine Serre, per fare qualche nome. Ma anche il nuovo brand di una designer già celeberrima come Phoebe Philo sta generando livelli enormi d’attesa senza essere il revival di niente, anche se legato alla ovvia nostalgia per il “vecchio” Céline. In un caso abbastanza strano poi, l’eccellente duo dietro GmbH ha ottenuto grandi risultati con il proprio brand indipendente ma si è trovato in difficoltà con un heritage ingombrante come quello di Trussardi, per cui la strada segnata dal corporate handbook che molti CEO seguono anche troppo alla lettera non si è rivelata efficace. L’esistenza di un lungo heritage precedente al revival, in effetti, rappresenta sia una grande attrattiva che un duro limite: la stessa brand awareness pre-esistente che seduce gli investitori spesso rappresenta anche un pregiudizio su cosa il brand può e non può essere da parte del pubblico. Quel pregiudizio sa spesso rivelarsi fatale.

Secondo un articolo di BoF di quasi dieci anni fa il fascino dei revival dal punto di vista economico riguarda proprio quell’heritage pre-esistente, che è il primo e indispensabile ingrediente di un brand che voglia posizionarsi nel lusso. Sempre lo stesso articolo di BoF, parlando del revival di Paul Poiret, scriveva: «Il fatto che questi marchi siano in gran parte dimenticati al di fuori dei circoli di esperti, significa che […] l'investitore […] ha un notevole spazio di manovra creativo. [Il modello del revival] dipende da un certo grado di dimenticanza da parte del consumatore, che idealmente percepirà la "rinascita" di un marchio». Ciò vale a dire che, una volta ottenuti i diritti, col nome del founder si può fare un po’ come si vuole. Il modello però non funzionò per Paul Poiret che ha smesso di postare su Instagram nel 2019: ovviamente non aveva molto senso che una società coreana e una donna d’affari belga impiegassero una designer cinese per riportare in auge il nome di un couturier francese ritiratosi nel remoto 1944 perché altri designer come Chanel lo avevano sorpassato in termini di innovazione. In quel caso l’operazione era dead on arrival. Lo stesso si dica di Vionnet, che ha preso uno dei nomi più celebrati della storia della couture e lo ha usato per firmare sneaker e abiti pienamente dimenticabili finendo per chiudere di nuovo nel 2018 in un silenzio impietoso e un po’ umiliante. La lista potrebbe andare avanti, specialmente con il difficile caso di Halston – ma l’esistenza di tanti fallimenti non vieta che un fashion revival di successo possa davvero avvenire. 

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Due esempi dimostrano come una possibile strada da percorrere sia quella dell’iper-specializzazione: uno è Moynat, di proprietà di LVMH che ha optato per un quieto rilancio nel 2021 sotto la guida di Nicholas Knightly; l’altro è Franzi 1864, storico pellettiere milanese resuscitato da Marco Calzoni e Stefan Oelze. Entrambi questi brand lavorano su una singola categoria, le borse di altissima gamma, procedendo con grande cautela, stabilendo un linguaggio basato su un prodotto distintivo e riconoscibile senza inutili schiamazzi. Arrivare a enormi volumi di vendita richiederà tempo, certo, ma quello che conta è che il prodotto sia credibile. Le cose si fanno però più complicate quando si deve uscire dalla singola categoria merceologica ed entrare nel full look. Il recente revival di Pucci, ad esempio, è stato abbastanza fedele agli archivi e segue una prudente politica che non vuole accostarlo ad altri giganti dell’industria – non di meno, nei momenti in cui il brand si distacca dalle stampe e dagli ampi capi in chiffon di seta originali, comincia a vacillare. Gli archivi del brand hanno sufficiente benzina creativa per alimentare anni e anni di collezioni?  Altrove, invece, la piattaforma di Courregès è stata ottima per portare alla ribalta il talento di Nicholas di Felice anche se ora il nome del designer originale è associato a capi basic logati con colletti pronunciati e un vibe workwear – tutte cose per cui l’uso del nome di Courregés è un po’ superfluo. Ma quindi cosa scegliere tra un brand vecchio e un designer nuovo? Karl Lagerfeld, che una volta provocò un giornalista dicendogli che dopo la sua morte avrebbero dovuto buttare via tutti i suoi archivi, era un fan del “nuovo è sempre meglio” e una volta disse: «Non c’è niente di peggio che far tornare i bei vecchi tempi. Per me è l’ammissione definitiva di un fallimento».