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Che cos'è il rapwashing?

L'inusuale presenza rap al Festival di Sanremo

Che cos'è il rapwashing?  L'inusuale presenza rap al Festival di Sanremo

Il mondo della cultura hip-hop, e in particolare del rap come sua espressione più diffusa e di successo, è da sempre oggetto di grandi dibattiti. Dalla sua diffusione su larga scala si discute senza sosta o soluzione su cosa sia o non sia il vero rap, su quali ideali porti avanti, su come sia correlato alla violenza, alla povertà, al disagio sociale, alla fame di ricchezza, all’illegalità, su quale sia la sua estetica, su quanto gli sia concesso o non concesso essere mainstream e contaminarsi con altri generi e stili. Le posizioni possono essere più o meno estremiste, ma quello che ne emerge a un’analisi oggettiva non è consolante per i puristi del genere. 

Pare impossibile, per il rap, sfuggire alla grande macchina del mainstream e della commercializzazione, anche se secondo Guè, ad esempio, esistono ancora delle resistenze. In Italia come ovunque, si ha la sempre crescente sensazione che il rap abbia del tutto abbandonato le sue origini e le sue specificità socio culturali per diventare un genere musicale come un altro, vendibile e performabile ovunque e da chiunque al pari del pop, basta un look adeguato. Dopotutto lo stesso processo, solo un centinaio di volte più veloce, è toccato recentemente anche alla trap, come ha iniziato a spiegare molto bene UFTP in “Trap - Storie distopiche di un futuro assente” per Agenzia X. Questo non vuol dire che le discussioni si siano spente al cospetto di questa schiacciante consapevolezza, anzi. A riaccenderle ci ha pensato il Festival di Sanremo. A uno sguardo superficiale, già con l'edizione dell'anno scorso diversi artisti assegnabili alla sfera del rap hanno calcato il prestigioso palco dell’Ariston in qualità di concorrenti e ospiti. Madame, Izi, Lazza, Salmo, Fedez, Gue Pequeno, Big Mama, Articolo 31. Rap di vecchia e nuova generazione, in una comunanza di cuori idealmente apprezzabile da chiunque si sia avvicinato al rap italiano negli ultimi 20 anni. Lazza, con la sua Cenere, si è addirittura classificato secondo, dichiarando tra le altre cose: «L’hip hop ha vinto». Nell'edizione che sta per iniziare settimana prossima, i rapper sono ancora aumentati: Geolier, Ghali, La Sad, Mr Rain, Rose Villain, Tedua, Il Tre e sono solo i principali tra quelli che vedremo, ospiti e concorrenti, sul nostro teleschermo quest'anno. Una rinascita del genere? Non sembra. 

Proprio su questa dichiarazione si è concentrata un po’ della stampa italiana di settore, e un dibattito ne è nato (o rinato) sulle forme del rap “mainstream”, su cosa significa portare l’hip hop su un palco che nonostante tutto rimane tradizionalista e su cosa si è disposti a sacrificare per farlo. Rockol, ad esempio, non ci è andato per il sottile. Secondo Claudio Cabona quello che abbiamo visto su Rai 1 tutto è stato tranne che hip hop, in una contaminazione con il pop e con la categoria definibile “del sanremese” che non è stata apprezzata. Sulla stessa scia Soundwall, che ha parlato di rapwashing, affiancandolo alle pratiche del pinkwashing e del greenwashing e di fatto usando il termine per la prima volta, almeno in Italia. In generale nella scorsa edizione pare siano stati apprezzati il freestyle di Fedez sulla nave da crociera e l’esibizione di Big Mama in coppia con Elodie su American Woman. Non amata invece la scelta di Izi di esibirsi con Madame su Via del Campo di Fabrizio De André senza aggiungere nulla di suo. Neanche menzionato, poi, Sangiovanni, in versione ripulita/cosplay di Gianni Morandi da giovane. Non è difficile capire perché non sia stato nominato, dopotutto viene dritto dalla scuola di Amici di Maria De Filippi, però è impossibile non notarne la decisa virata di musica e di immagine, probabilmente foriera di un cambiamento più profondo del personaggio Sangio. 

Soundwall parla di rapwashing in modo ancora più sottile rispetto a quello comunemente inteso quando si parla di “-washing”, sostenendo che il rap sia stato usato dal Festival di Sanremo per fare notizia, per rendersi giovane, per far parlare di sé, per rinnovarsi, e che nel processo sia stato contaminato, svenduto, limato e svuotato, soprattutto dal punto di vista delle tematiche, del lessico e dei messaggi. C’è del vero: una comunanza di cuori di tale portata tra una manifestazione di questo calibro e il rap italiano, solo qualche anno fa sarebbe stata impensabile. Fabri Fibra lo sapeva molto bene. La sua Andiamo a Sanremo, risalente al 2007, dovrebbe garantirgli, per crudezza del testo e per nomi e cognomi fatti, almeno altri 5 o 6 anni di lontananza dalla città dei fiori, a questo ritmo. Il cosiddetto rapwashing, però, trascende il festival in sé per allargarsi a macchia d’olio in tutti i campi dell’intrattenimento mainstream. Negli ultimi anni, infatti, il mondo dello spettacolo italiano, con la televisione in prima fila, ha deciso di monetizzare sull’aura distruttiva del rap, che viene ingoiato e rimasticato, cavalcato e poi abbattuto. Torna in mente, di nuovo, la parabola di Sangiovanni.

Il rap, però, anche se le sue origini dicono il contrario, non è più considerabile una tematica sociale. Non negli ultimi trent’anni e non in Italia. Il Festival di Sanremo, poi, è un mostro fagocitante per natura, come lo è qualsiasi meccanismo di fama e di vendita di quelle dimensioni. Se il rapwashing esiste, e ammesso e non concesso che sia collegabile alle pratiche di greenwashing e pinkwashing, pre-data decisamente febbraio 2023, ed è attribuibile alla fluidità estrema dell’industria musicale e al modo in cui è stata cambiata dai social network, dal meccanismo della viralità e dal cambiamento nelle abitudini di ascolto dei giovanissimi. Una parte di responsabilità, poi, è forse attribuibile anche alla tensione naturale a cambiare, a cambiarsi, ad adattarsi a un mercato, quello musicale, sempre in movimento e in stretta dipendenza ai gusti del pubblico e, infine, alla natura del genere, talmente radicato nel suo tempo da non poter durare per sempre senza cambiare. Che piaccia o meno. Lazza stesso, nel 2021, aveva ammesso di non voler fare rap per sempre