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Lasciate stare "Blonde"

Qualche riflessione sulle polemiche scatenate dal film di Andrew Dominik su Marylin Monroe

Lasciate stare Blonde Qualche riflessione sulle polemiche scatenate dal film di Andrew Dominik su Marylin Monroe

Di Blonde sono state dette tante cose: da Indie Wire che l’ha definito una «pornografia del dolore» a Esquire che l’ha apostrofato come «ingiusto e arrogante», passando per la disamina sulla feticizzazione del dolore femminile in The Cut, mentre su Twitter c’è persino chi si è detto disgustato dall’intrinseco "messaggio antiabortista" che il film vorrebbe far passare. Oltre all'indignazione dei fan sui social media, il film è stato anche stroncato da diversi critici cinematografici, tra cui Manohla Dargis del The New York Times, che ha scritto nella sua recensione: «Date tutte le umiliazioni e gli orrori che Marilyn Monroe ha subito durante i suoi 36 anni, è un sollievo che non abbia dovuto soffrire per le volgarità di Blonde, l'ultimo intrattenimento necrofilo per sfruttarla». Dal canto mio, dopo due ore e quarantacinque minuti del film diretto da Andrew Dominik a partire del magnum opus da 775 pagine di Joyce Carol Oates, non ho sentito nessun tipo di indignazione. Ma leggendo le recensioni mi sono spesso chiesta quando esattamente abbiamo iniziato a credere che la moralità sia un requisito fondamentale per un film, come ci si possa aspettare che un adattamento cinematografico ambientato nella Hollywood degli anni ‘50 possa non essere profondamente patriarcale e quando siamo diventati dei così fini conoscitori della vita di Marylin Monroe da poter pensare di esprimere dei diktat su ciò che dovrebbe o non dovrebbe essere compreso nella sua biografia, che poi biografia non è.

Di base Blonde è la storia (dichiaratamente romanzata) di un trauma che Norma Jean Baker ha subito realmente in tenera età, quando un padre assente e una madre schizofrenica e violenta hanno posto le basi di una vita passata a inseguire l’approvazione maschile, ma ancor più a tentare, fallendo, di costruire quel nucleo familiare che non aveva mai avuto. Da questa mancanza incolmabile nasce Marylin Monroe, quasi una personalità dissociata che viene in soccorso a Norma se il dolore è troppo intenso da sopportare, come quando, dopo quella che potrebbe essere definita una crisi psicotica e una massiccia iniezione di sedativo, si vede sorridere riflessa allo specchio o si ripete, durante un aborto forzato, di «entrare nel cerchio di luce», di recitare, affinché tutto passi. Un susseguirsi di abusi e di uomini (che Norma chiama rigorosamente ‘daddy’), in cui, l’unico rapporto consensuale ritratto è un manage a trois, in un’alternarsi psichedelico tra passato e presente, bianco, nero e vividi colori - iconica la scena in cui, durante una lezione di recitazione, Norma inizia ad urlare come un’ossessa e interrogata sul motivo di un tale stato di agitazione dal suo insegnante risponde «stavo solo ricordando». Tutti i personaggi che le si presentano sembrano una scialuppa di salvataggio dall’autodistruzione, tutti la sfruttano per qualcosa: Darryl Zanuck della 20th Century Fox per il quale un provino corrisponde ad uno stupro; i due figli della vecchia Hollywood, Charlie Chaplin Jr. e Edward G. Robinson Jr., che la deridono con lettere fittizie del padre mai ritrovato; il suo secondo marito, Joe DiMaggio, che considera la sua carriera cinematografica poco meno che prostituzione; il suo terzo marito, Arthur Miller, interpretato da Adrien Brody, che si preoccupa più di ciò che l'essere sposato con un sex symbol comporta al suo status intellettuale e la sfrutta come ispirazione per le sue opere; JFK che compare solo per il tempo di una fellatio e, naturalmente, il pubblico, che come una massa uniforme, vorace e animalesca, la accoglie come un culto accoglie una vittima sacrificale. 

Il tutto viene intervallato da tre aborti (due forzati e uno spontaneo) in cui una animazione 3D di pessimo gusto ripropone le fattezze di un feto parlante che rimprovera a Norma le sue interruzioni di gravidanza, con dei risultati che potremmo unanimamente definire di cattivo gusto ma sicuramente non 'antiabortisti'. Alla domanda sulla sua recensione del film, la Oates – che non è stata coinvolta nella produzione del film – ha twittato: «Penso che sia stata/è una brillante opera d'arte cinematografica ovviamente non per tutti. Sorprendente che in un'era post #MeToo la cruda esposizione della predazione sessuale a Hollywood sia stata interpretata come "sfruttamento". Per la giovane stellina Norma Jeane Baker, non c'era alcuna possibilità di 'raccontare'/'denunciare' uno stupro. Nessuno le avrebbe creduto, a nessuno sarebbe importato; e sarebbe stata abbandonata dallo studio e inserita nella lista nera. Quindi, il film "Blonde" espone lo stupro, 50 o 60 anni dopo» ha scritto Oates. «Il crudele sfruttamento di Marilyn Monroe da parte, tra gli altri, di John F. Kennedy è ben noto ai biografi di MM e Kennedy; ma la sua trasposizione sullo schermo è difficile da vedere per alcuni spettatori.»

L’intento di Andrew Dominik non era trasporre fedelmente la biografia di Marylin, né fornirne un ritratto edificante, probabilmente neanche innalzare i retroscena della più iconica diva di Hollywood ad una parabola universale sullo sfruttamento perpetrato dagli uomini ai danni delle donne. L’intento è raccontare una storia disturbante in modo disturbante. Il risultato è esteticamente sublime sia nell’interpretazione ineccepibile di Ana De Armas sia nella fotografia, un film che in mezzo ad una marmaglia di prodotti cinematografici scialbi e senza polso, è in grado di smuovere qualcosa nello spettatore, che sia repulsione, sdegno o una semplice riflessione. La rappresentazione del dolore, femminile o meno, è un tropo ricorrente, una porta d'accesso all'espressione artistica e parte integrante dell'esperienza umana di ognuno, la feticizzazione è spesso un modo per accettare la sofferenza estetizzandola. Pensare che ogni forma d'arte debba essere di per sé morale e creata da persone a loro volta morali è traviante e profondamente pericoloso per la produzione artistica, in un decennio in cui si cerca di ridurre ogni cosa ad un posticcio e polarizzante manifesto ideologico da twittare sui social.