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Abbiamo davvero bisogno del trendcore?

L'idea di dare nomi alle microtendeze funziona in parte

Abbiamo davvero bisogno del trendcore? L'idea di dare nomi alle microtendeze funziona in parte

Cheap and chic, mix and match, see now buy now: la moda si appropria costantemente di espressioni per dare un nome a trend e a tutta quella sfilza di dettagli che tengono su il morale degli show da condensare in review più o meno approfondite. Il rischio di incappare nella parola -core, ultimamente, è piuttosto alto: regencycore, bloke core, cottagecore, barbiecore, auntiecore sono solo alcune delle nomenclature create ad hoc per designare delle tendenze stilistiche o delle tipologie estetiche con precise reference. I redattori e gli editor ne abusano, i TikToker ne sono assuefatti e il sistema di conseguenza ne risente: i vari -core presenti in giro riescono davvero a mettere su un trend in grado di sopravvivere alla velocità con cui si dileguano views e hashtag? 

La storia del -core, così come siamo abituati a concepirlo, inizia nel 2013 quando il termine normcore fa la sua prima comparsa tra le pagine di K-Hole in un momento in cui l’editoria cominciava a fare i conti con il digitale. Sinteticamente apostrofato dal New York Magazine come «la moda per coloro che realizzano di essere uno su 7 miliardi», il normcore costituisce tuttora più di un semplice trend che ha fondato la sua narrazione estetica sulla forza dell’uniformità. Narrazione che, spesso, manca al -core di turno proprio perché non riflette alcun tipo di tensione che racconta cambiamenti reali nel modo in cui le persone si avvicinavano alla moda. Anche se queste tendenze, spesso fugaci, possono risultare esteticamente interessanti, vale la pena chiedersi perché si concentri così tanto entusiasmo nel dargli una rilevanza non perfettamente bilanciata. In un articolo pubblicato su i-D, il giornalista José Criales-Unzueta ha parlato di microtendenze che «sono un modo per scrittori e commentatori di rendere le nuove collezioni e le idee degli stilisti più digeribili o comprensibili per un pubblico più ampio».

Elevare un processo vestimentario a core - il cui significato, peraltro, ha in sé l’idea di nucleo centrale - vuol dire rintracciare dei presupposti per un fenomeno sociale oltre che estetico. Il più delle volte, però, il suffisso core si ferma ai vestiti, se non a un preciso dettaglio di un abito. L'ascesa dei micro-core coincide non a caso con lo sviluppo dell'estetica iper-specifica di Internet - c'è persino una pagina Wiki che racconta tutti i possibili core online, tra cui bubblegumbitchcore, cottagecore e fairycore. A essere risultati particolarmente significativi per la cultura mainstream, quest’anno, sono stati balletcore, regencycore e barbiecore. Se il regencycore deve molto alla serie Bridgerton, Barbiecore è stato quello che ha suscitato più interesse raggiungendo il picco l’8 luglio e registrando un aumento del 93% per la ricerca “Barbie pink” come Depop ha dichiarato a Vogue. La diffusione del rosa e di un’attitude da bambola che può ricordare una Barbie, in realtà, non è che l’esito di un processo più lungo e sedimentato: Pierpaolo Piccioli, uno degli stilisti più influenti del momento, ha realizzato un'intera collezione di abiti Valentino in una tonalità di rosa in partnership con Pantone, mentre Balmain aveva persino ideato una collaborazione con Barbie all’inizio di quest’anno. Ma i costumi del film Barbie avrebbero avuto la stessa risonanza mediatica - tanto da scomodare il suffisso -core -  se non ci fosse stato un revival generale dell’estetica Y2K? Innalzare un colore a -core è un modo pigro per descrivere e pensare alla moda. Ammesso che questa tipologia di nomi possa effettivamente funzionare su realtà succinte come TikTok, l’editoria dovrebbe sforzarsi di resistere a una moda che tende a semplificare e svilire il tutto. Del come e del perché, il più delle volte, il suffisso -core potrebbe non tenerne conto.