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Virgil Abloh e il nostro modo di lavorare

«Il mio iPhone è il mio ufficio»

Virgil Abloh e il nostro modo di lavorare «Il mio iPhone è il mio ufficio»

«Il mio iPhone è il mio ufficio. Fino a quando il mio telefono avrà batteria, posso continuare a lavorare e produrre tutto quello che voglio e che mi serve».

Virgil Abloh aveva risposto così a una domanda di Esquire sul suo processo creativo: per Abloh, l’iPhone aveva completamente sostituito il mondo fatto di skecth a bozzetti fatti a mano, un vezzo che l’industria creativa tutta continuava a concedersi. Ma non solo: l’iPhone (e Internet) avevano distrutto quei confini dell'"office life” che avremmo poi conosciuto come illusori durante la pandemia da Covid-19. Si poteva lavorare ovunque, si poteva lavorare sempre. A patto che la tua passione concidesse in maniera viscerale con il tuo lavoro e con la tua missione. Jonathan Cheung, head of designer di Levi’s, dopo aver lavorato con Abloh alla collaborazione tra lo storico brand di denim americano e Off-White, aveva detto «Ha un modo di approcciare il design molto moderno. Non ricevi tanti bozzetti di moda da lui. Arriva sempre con tantissime idee, che spesso sono solo parole. A volte le scrive su un foglio di carta o te le invia su iMessage o sui DM di Instagram. Poi va in scena e improvvisa». Una narrazione che potrebbe sembrare controcorrente rispetto alla formazione accademica da architetto di Abloh o quando Kanye lo incoronò come l'architetto dei suoi pensieri perché «dopotutto lui è un architetto, giusto?»

Virgil Abloh ha rappresentato l’epitome del creativo moderno sotto tanti punti di vista: l’ispirazione graffitara portata fino a Parigi, gli studi accademici, l’inizio come direttore creativo personale di un rapper sono tutti aspetti che hanno contribuito a definire la sua figura. Nei Behind The Scenes delle sue sfilate lo vedevano spostarsi in skate, nei momenti liberi Milano l’ha visto dietro la console, dove peraltro il suo percorso creativo era iniziato con Been Trill. E di Virgil Abloh conosciamo anche il modo di lavorare per l'appunto: gli piacevano i tumblr, era innamorato dei moodboard e delle reference, quelle stesse che spesso l'hanno messo nei guai. Non passava collezione, negli ultimi anni, che qualcuno non lo accusasse di plagio. Non c’era volta, tuttavia, che il pubblico non imparasse a smontare in maniera matematica quelle accuse. Di Virgil Abloh è stata celebrata la sostanza, il metodo e anche il profondo significato culturale di tutto quello che aveva promosso, in quanto afroamericano dominante in una industria bianca, europea e annoiata. Ma se invece Virgil Abloh avesse cambiato soprattutto l’idea di lavoro di un'intera industria? Una ricerca delle parole “Virgil Abloh” e “workaholic” su Google produrrà una quantità di risultati tale da non poter lasciar intendere una qualche sorta di rapporto sano tra le due. Quelle parole, d’altronde, le aveva utilizzate anche lui quando, in una intervista con Vogue del 2019, aveva parlato di rallentare: «Sono in questa sorta di fase di mezza età dove sto pensando di diventare più un tipo da content statico da divano. Da workaholic, questo è l’enigma centrale: sto raggiungendo tutti questi obiettivi ma sto anche iniziando a pensare che forse non dovrei viaggiare così tanto, non dovrei fare così tanti progetti e passare più tempo a casa con i bambini. Ora che riesco a figurarmi la traiettoria magari, chissà, potrei diventare più noioso?» Virgil aveva poi rallentato - come tutti - per la pandemia - contemplando all’interno della sua fase da “morte dello streetwear” una sorta di slow-life che nessuno riusciva a vedergli congeniale. Fino a una settimana prima della sua morte Virgil Abloh aveva suonato in giro, preparato show e tenuto lecture. 

Molto spesso il concetto di “etica del lavoro” si trasforma in qualcosa di perverso, scenari - traslati al mondo della moda - alla Holston in cui si immagina lunghissime notti trascorse all’interno di atelier alla ricerca del fit perfetto. La realtà, come spesso accade, è più noiosa di così, come è noioso il concetto di etica del lavoro così come è stato sempre tramandato. Per un'intera generazione di persone, di creativi, Virgil Abloh non è stato solo un gatekeeper, non ha offerto rappresentazione, ha rappresentato un'alternativa. Un modo alternativo di fare le cose, un modo diverso di concepire il lavoro, di mostrarsi ai genitori benestanti che l’avevano sì sempre appoggiato, ma per i quali era comunque molto importante che Virgil avesse una istruzione. Per una intera generazione di persone che non sapevano definire il proprio lavoro, Virgil Abloh è stata la conferma che quella confusione era accettabile, a volte forse addirittura necessaria per riuscire in un momento in cui non esistono neanche più i confini tra digitale e reale, figurarsi quelli tra i settori del lifestyle. A una intera generazione di aspiranti creativi Virgil Abloh  ha insegnato che non riuscire a definire il proprio lavoro non è sempre una cosa sbagliata, forse non lo è mai stata. Un architetto che trascina lo streetwear a Parigi, d’altronde, è un manifesto vivente del fatto che esiste sempre un altro modo di fare le cose. Esiste sempre una strada alternativa, una visione differente, è che il talento è sì fondamentale, ma la passione è insostituibile.

Se un'intera generazione di aspiranti creativi  non riesce a definire il lavoro che fa è anche un po’ per colpa di Virgil Abloh. Se questo lavoro che non riescono a spiegare ai loro genitori gli piace così tanto, è anche un po’ merito suo. Se l’iPhone è diventato il più grande spazio co-working del mondo è anche per provare a diventare come lui. Tutta questa aspirazione arriva ovviamente a un prezzo: l’accecante ascesa di Virgil Abloh ha fatto credere a tutta quella generazione di creativi che potesse essere facile replicare il successo. «Quante t-shirt e hoodie possiamo avere nel nostro armadio?», aveva tuonato Virgil Abloh nella celebre intervista di Dazed in cui prometteva la fine dello streetwear. Quanti Caravaggio, quante tag, quante strisce, quante virgolette il mercato sarebbe stato pronto ad accettare? L’ispirazione più grande che Virgil potesse lasciare al mondo che lui stesso aveva plasmato non era dopotutto visibile. Non ci stava in un moodboard e forse neanche in un iPhone. Virgil Abloh è morto il 28 novembre, ma se non altro ha insegnato a una generazione che ne aveva disperatamente bisogno un modo diverso di lavorare e di credere nei propri sogni.