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Si può denunciare un brand per appropriazione culturale?

Lo abbiamo chiesto agli avvocati dello studio Herbert Smith Freehills di Milano

Si può denunciare un brand per appropriazione culturale? Lo abbiamo chiesto agli avvocati dello studio Herbert Smith Freehills di Milano
Victoria's Secret (2010)
Valentino SS16
Tory Burch SS21
Marc Jacobs SS17
Louis Vuitton SS10
Gucci FW18
Givenchy FW15
Isabel Marant Étoile FW20
Dior Haute Couture SS07
Dior Haute Couture FW98
Comme des Garçons Homme Plus FW20
Chanel Métiers d'Art 2011

«Il problema dell'appropriazione culturale è duplice: da un lato gli stilisti sottraggono elementi identificativi di una cultura o di una specifica comunità senza richiederne autorizzazione […] In secondo luogo […] le espressioni culturali tradizionali […] molte volte vengono utilizzate in maniera impropria», così gli avvocati Pietro Pouché e Giulia Maienza dello studio Herbert Smith Freehills di Milano hanno riassunto il problema dell’appropriazione culturale nella moda. Un’area che, legalmente parlando, è meno grigia di quanto si pensi – ma che comunque rimane ambigua abbastanza da lasciare che episodi di appropriazione si verifichino praticamente a ogni stagione della moda. Una delle più recenti ha coinvolto Balenciaga, accusata di aver copiato i saggy pants della comunità afroamericana, ma anche Gucci, che nel 2018 dovette ritirare dal commercio un turbante che rappresentava un indumento religioso per i Sikh, mentre nel 2020 fu Comme des Garçons Homme Plus a finire sotto accusa per aver fatto indossare a modelli bianchi parrucche con i dreadlock mentre Kim Kardashian venne convinta dalle pesanti critiche online a trasformare il nome della sua linea di shapewear da Kimono a Skims.

Chanel Métiers d'Art 2011
Comme des Garçons Homme Plus FW20
Dior Haute Couture FW98
Dior Haute Couture SS07
Isabel Marant Étoile FW20
Givenchy FW15
Gucci FW18
Louis Vuitton SS10
Marc Jacobs SS17
Tory Burch SS21
Valentino SS16
Victoria's Secret (2010)

Cambiano brand e creativi ma la dinamica è sempre la stessa: «un membro di una dominant culture che "si appropria" della traditional knowledge e delle TCE [traditional cultural expressions, NdR] appartenenti a una minority culture e le utilizza in un contesto estraneo, senza aver ottenuto alcuna autorizzazione né coinvolgimento del titolare, senza avere alcuna consapevolezza del significato dell'elemento copiato, al fine di trarne un vantaggio commerciale ed economico senza versare alcun corrispettivo». Una dinamica di potere, quindi, che contrappone un forte a un debole e che, con la recente crescita economica dei brand di moda, diventa sempre più sbilanciata a favore di questi ultimi – ma che non è sempre univoca. La cultura del calling out, nata sostanzialmente insieme a @diet_prada, ha trasformato i social media e l’opinione pubblica in armi “ufficiose” per le culture minoritarie, aumentando anche la consapevolezza dei consumatori. Ma è chiaro che anche il calling out ha i suoi limiti: in primo luogo perché non aumenta la agency delle culture minoritarie e in secondo luogo perché manca della sistematicità che invece la legge potrebbe garantire.

A questo punto sorge spontanea la domanda sulla maniera in cui una certa comunità possa difendere un’espressione culturale propria ma priva di autori veri e propri. Secondo gli avvocati di HSF esiste più di una maniera: la prima è il diritto d’autore che «permetterebbe al popolo indigeno di poter sfruttare le proprie creazioni, essere sempre riconosciuti autori e impedire sfruttamento e diffusione non autorizzate altrui» con la possibilità di «identificare non un singolo autore, ma una comunità»; altra soluzione è quella di «designare una specifica autorità volta a tutelare i diritti sulle proprie espressioni del folklore», opzione che comunque non garantirebbe diritti economici estesi nel tempo. Di difficile realizzazione invece è il deposito di marchi registrati, operazione molto costosa, mentre un metodo quasi sempre efficace è costituito da marchi di certificazione e indicazioni geografiche. A fronte di tutte queste ambiguità sul piano legale «si è cercato sia di adattare i sistemi di proprietà intellettuali esistenti, sia di sviluppare sistemi di tutela sui generis, progettati e modellati ad hoc sulla base delle esigenze specifiche della traditional knowledge». L’argomento è in effetti così denso di criticità che variano caso per caso che sia il WIPO (l'Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale) che l’UNESCO hanno istituito una serie di comitati per trovare soluzioni legali univoche ai problemi dell’appropriazione culturale.

È chiaro che la strada più breve per risolvere il problema è prevenirlo. La sensibilità culturale da parte di brand e creator è l’antidoto principale ai problemi della appropriation – ma questo non significa che il lato creativo dell’industria della moda non possa ospitare il multiculturalismo. «Basti pensare ad accordi di collaborazione con le comunità indigene, all'instaurazione di un dialogo costruttivo con artigiani locali sul processo creativo», spiegano gli avvocati di HSF – tutta una serie di processi di riconoscimento che trasformano appropriazione in integrazione e, anzi, aumentano il valore intrinseco delle conoscenze tradizionali applicate alla moda. La trasparenza sulle ispirazioni e la collaborazione autorizzata con le comunità la cui cultura si vuole integrare nelle collezioni di moda è in fondo un win-win: per i brand, in quanto rappresenta una dimostrazione tangibile di inclusivity, e per le comunità i cui artigiani otterrebbero riconoscimento, visibilità e soprattutto un ritorno economico.

Questo tipo di policy inclusiva sul lato creativo non solo spiana la strada alle collaborazioni multiculturali, ma potrebbe costituire una nuova frontiera per l’attivismo della moda che smetterebbe di essere (come spesso è) soltanto performativo o separato dall’autentico fare della moda e si tradurrebbe invece in termini assolutamente concreti, con altrettanto concreti vantaggi sul piano della brand perception.