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Cos'è la fashion mafia e perché deve finire

Nella moda post-pandemia, non ci sarà spazio per uno dei sistemi più esclusivi del settore

Cos'è la fashion mafia e perché deve finire Nella moda post-pandemia, non ci sarà spazio per uno dei sistemi più esclusivi del settore

Nel corso degli ultimi anni, chiunque fosse dotato di una certa attenzione e di una collezione abbastanza ampia di riviste di moda avrà notato una serie di strane ricorrenze – ricorrenze che riguardavano non tanto i trend ma i nomi dei creativi coinvolti nelle produzioni di più alto profilo. Sulla pagine di riviste come Vogue, Harper’s Bazaar, Elle e via dicendo, come anche nelle campagne dei principali brand, continua a ricorrere costantemente la stessa selezione di fotografi, stylist e direttori creativi che monopolizzano i credits di ogni cover o contenuto editoriale di livello. Una casta ufficiosa a cui gli insider hanno dato il nome di fashion mafia

Secondo The Business of Fashion, solo 18 i fotografi che hanno scattato la cover di Vogue America negli ultimi dieci anni – un totale di 120 cover della rivista più autorevole del settore alla cui realizzazione solo 18 creativi hanno lavorato negli anni, anche senza essere equamente divisi fra loro. Steven Meisel ne ha scattate venti mentre Tyler Mitchell, il primo fotografo nero a scattare una cover del magazine, solo tre. Questa situazione non riguarda soltanto gli Stati Uniti ma tutte le edizioni internazionali di Vogue, un certo numero di giornali più mainstream e i maggiori brand del lusso che si rivolgono spesso allo stesso pool di creativi di alto profilo per le proprie campagne.

Certo, è vero che i creativi che fanno parte della fashion mafia sono considerati alla stessa stregua di divinità nell’industria e si sono di sicuro guadagnati il diritto di scattare queste cover – un diritto che nessuno gli contesterebbe. Steven Klein, Juergen Teller, Alasdair McLellan, Mario Testino e Mert & Marcus sono fra i creatori di alcune delle più iconiche campagne di brand come Prada, Gucci, Tom Ford e molte altre maison. Ma qui sta il problema: il loro status semi-divino dura troppo a lungo, rende il sistema duramente esclusivo e, alla lunga, finisce per danneggiarlo

L’ironia sta nel fatto che la fashion mafia non coinvolge nemmeno i direttori creativi dei principali brand, che anzi vengono cambiati con una certa frequenza – ma nonostante ciò, i direttori creativi continuano ad attingere alla stessa limitatissima lista di creativi. Assumendo soltanto le stesse venti persone nel corso di dieci anni, il denaro generato dall’industria rimane sempre nello stesso posto, riempie le tasche e ingrassa i budget dei creativi più richiesti mentre i creativi più giovani devono lavorare gratis o addirittura investire il proprio denaro nel creare il proprio portfolio. Il risultato finale è un sistema iniquo che avvantaggia solo chi è in cima alla catena alimentare e rende assai più difficile per chi non lo è ottenere il medesimo successo – una difficoltà che aumenta ulteriormente nel caso dei creativi di colore.

Quella della moda è un’industria fondata sull’esclusività – e dunque isolazionismo e nepotismo non sono nulla di nuovo al suo interno. Ma in quest’epoca in cui tutti si sprecano in giuramenti di diversità e inclusione, sapere che la fashion mafia continua a esistere è tutto fuorché sorprendente. Ma secondo un recente articolo di The Business of Fashion, le restrizioni imposte dalla pandemia potrebbero porre fine alla fashion mafia. Come ha commentato Antoine Arnault, membro del consiglio di amministrazione di LVMH:

«Quando si apre una rivista si vede che le foto sono state fatte dagli stessi tre fotografi di sempre, con lo stesso trucco e lo stesso hair-styling. Credo che la pandemia segnerà la fine di questo fenomeno. L’ossessione dell’industria per questa cerchia ristretta di creativi dovrà finire».

Con i limiti imposti ai viaggi internazionali e l’abbassamento dei budget, sia i brand che le riviste si sono ritrovate costrette a ricorrere ai talenti locali invece che al solito pool di creativi. Combinato alla pressione politica del movimento Black Lives Matter, che ha mirato a eliminare le pratiche razziste dell’industria e attuare un cambiamento verso una moda più inclusiva, ci si sta lentamente liberando della fashion mafia. Questo però non dovrebbe avvenire rovinando lo storico apporto che i creativi della casta hanno dato alla moda, ma creando semplicemente un ambiente in cui possano prosperare anche i creativi che fanno parte di minoranze e in cui non servano dieci anni per guadagnarsi una posizione di rilievo.