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L'horror sonoro di “La Zona d’Interesse”

Anche se sullo schermo vedrete solo fiori e bambini che giocano

L'horror sonoro di “La Zona d’Interesse”  Anche se sullo schermo vedrete solo fiori e bambini che giocano

La differenza principale tra la vista e l’udito è che possiamo chiudere gli occhi, ma non le orecchie. Per non parlare di come il nostro campo visivo è sempre limitato a quello che abbiamo davanti mentre quello uditivo è aperto intorno a noi a 360 gradi. I suoni creano lo spazio, dopo tutto. E questo è il principale problema dei protagonisti de La Zona d’Interesse, nuovo film di Jonathan Glazer che sta rapidamente scalando i botteghini italiani, e che racconta la vita della famiglia di Rudolf Höss, comandante del campo di concentramento di Auscwhitz, in una idilliaca villetta di campagna che ha come unico inconveniente di avere un muro confinante con il lager. Il film non ha una vera trama ma si limita a mostrarci la routine della famiglia Höss, che include anche cinque figli e la suocera oltre ai “domestici” che in realtà sono i prigionieri del campo. Questa routine include cene familiari, festicciole in giardino, nuotate al fiume, cavalcate sul prato: una vita perfettamente normale, immersa nel verde e nella quiete – una quiete turbata, però, dalla raggelante percezione del massacro che si sta svolgendo al di là del muro veicolata attraverso un tappeto sonoro continuo, logorante, che sembra venire dall’inferno stesso. È tutto un non detto: nelle scene conviviali non si può fare a meno di notare la torre di sorveglianza di Auscwhitz che si staglia contro il cielo; quando il servo pulisce dal fango gli stivali di Höss l’acqua si colora di sangue; nemmeno nelle scene di giardinaggio si può evitare di notare, nell’angolo superiore dell’inquadratura, il filo spinato. 

@a24 The garden. #TheZoneofInterest original sound - A24

Come i pensieri dei protagonisti, anche la prospettiva delle inquadrature è pensata per vedere solo il bello: i fiori, il cielo azzurro, la campagna. Ma quello che i personaggi non possono controllare è quello che sentono: le urla terribili, gli spari, i cani che sbranano vivi i prigionieri, gli ordini urlati dei kapò, le frustate, il suono dei treni e dei motori della camera a gas. Un suono che è come una macina, che tappezza ogni scena, interrotto solo da alcuni intermezzi che interrompono il suo realismo con accordi profondi e stranianti creati da Mica Levi che arrivano alle orecchie come esplosioni di angoscia, realizzazioni psicologiche dell’orrore che in nessun caso viene mostrato. Quando non si sentono, in lontananza, le grida e i pianti infernali un altro suono, che a volte è quello indistinto di macchinari che vengono azionati, altre volte è una specie di residuo atonale (mancano parole per descriverlo) che pare descrivere intorno ai personaggi e agli spettatori il vasto spazio vuoto attraverso cui questi suoni si propagano. Come menzionato sia dall’attore protagonista Christian Friedel sia da diversi commentatori online, il film sembrerebbe essere una prosecuzione spirituale de Il Nastro Bianco di Michael Haneke, film ambientato esattamente trent’anni prima e in cui recita Friedel stesso. «C'è un collegamento tra "Il nastro bianco" e questo film, perché i bambini di "Il nastro bianco" potrebbero essere i futuri colpevoli di "La zona d'interesse"» ha detto Friedel a Screen Rant - ma il film di Glazer impiega espedienti artistici e simbolismi che esulano dallo stile assai scabro e clinico di Haneke, come nel caso delle scene girate in infrarosso o dell’enigmatica scena finale con il suo flash forward all’odierno museo di Auscwhitz.

Questa scena indica il fatto che il film non vuole solo immergersi in una realtà storica ma presumere la coscienza osservante di uno spettatore moderno - il che non significa che i personaggi del film siano inconsapevoli di cosa li circonda. Tutti quanti sentono e vedono i segni con diverse reazioni: nella scena finale, Höss viene preso da tremendi conati di vomito dovuti sia alla sua esposizione alle ceneri nell’aria che alla realizzazione di avere perso la propria umanità, quando nel mezzo di una festa di gala lui sa solo pensare alle camere a gas; sua moglie vive in totale negazione, indossando anche le pellicce e i trucchi delle donne ebree deportate e minacciando le domestiche di morte mentre beve il tè; ma è la suocera il personaggio che mostra l’unica reazione normale alla presenza del lager, scappando nella notte, inorridita dalle urla e dalla cenere che cade sul giardino dal cielo, e lasciando un biglietto di spiegazioni che sua figlia, dopo averlo letto la mattina dopo, brucerà nella stufa procedendo alla sua colazione. Questa reticenza, questo rifiuto di riconoscere ciò che c’è oltre il muro non sono il grande problema: lo è però la caparbietà dei personaggi e del pubblico (e qui siamo tirati in ballo) di continuare a vivere una rassicurante e normale esistenza anche a costo di ignorare del tutto il male intorno a noi. Come in mille altri casi, nella nostra vita, succede di assistere a una qualche violenza passivamente, senza intervenire: anche noi abbiamo paura che la nostra vita normale interrompa il suo corso, anche noi, forse, siamo come loro.