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Cosa significa davvero “radical chic”?

Storia del termine più frainteso di sempre

Cosa significa davvero “radical chic”? Storia del termine più frainteso di sempre

Qualunque studioso del settore, vi dirà che la lingua è una cosa viva, che cambia in base all’uso che se ne fa e che, soprattutto, è animata da due spinte opposte: una, centripeta, che spinge chi la usa a fissare quale sia il significato originario di una parola e aderire a esso; l’altra, centrifuga, che invece porta a usare termini vecchi in nuove accezioni. Una di queste parole è “radical chic”, termine coniato nel 1970 dal grande Tom Wolfe che, sulle pagine della rivista New York, descrisse come il circolo del ricco compositore Leonard Bernstein organizzasse eleganti cene nella sua casa di Park Avenue per raccogliere fondi a favore delle Black Panther, un gruppo ampiamente disallineato in spirito con la ricchissima èlite culturale di Manhattan. La copertina del numero uscito l’8 giugno del 1970 in edicola ritrae tre signore che indossano elegantissimi abiti da sera levare in alto un pugno chiuso in un guanto di pelle nera. Con un umorismo deliziosamente cattivo, Wolfe descrive come, per quella sera, tutti gli inservienti fossero bianchi dato che per una serata delle Black Panther non sarebbe stato opportuno selezionarne di etnie diverse. Nel pezzo si nota, comunque che «l’attuale ondata di Radical Chic ha creato la più affannosa ricerca per inservienti bianchi» in mezzo ai ricchi e sofisticati di New York.

Ora, nell’accezione originaria, il termine indicava più un momento culturale che una singola persona e descriveva la dissonanza cognitiva derivante dal voler mantenere tutti i privilegi della propria classe sociale pur sposando cause politiche radicali. «Che inondazione di pensieri tabù vengono in mente in questi eventi Radical Chic», scrive Wolfe con suprema malizia. La spaccatura e dissonanza che Wolfe illustrava si estendeva anche agli abiti: di certo non ci si poteva vestire al massimo dell’opulenza, né si potevano indossare i dolcevita neri e i pantaloni a zampa del “popolo”. Alla famosa cena di Park Avenue, solo Felicia Bernstein aveva capito come vestirsi. Come scrive Wolfe: «Indossa il più semplice abito nero che si possa immaginare, senza alcun ornamento, se non una semplice collana d'oro. È perfetto. Ha dignità senza alcun simbolismo di classe». Wolfe non poteva saperlo, ma stava descrivendo il quiet luxury. Oggi, tramontata quella polarità tra conservatori ricchi e radicali poveri, le acque sono più torbide che mai: le due fazioni ora sono quelle delle culture wars, che dividono il mondo in due fazioni parimenti fanatiche e cioè i redpillati alt-right e sostenitori della famiglia tradizionale contro il movimento Woke che vuole riformare la società un orribile film Marvel alla volta. 

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Ma sono solo cambiate le maschere – la commedia è la stessa dai tempi di Wolfe e dei suoi «liberali da limousine». Il significato del termine “radical chic” però è cambiato moltissimo. In Italia la colpa di far slittare il senso della frase fu di Indro Montanelli che, nel marzo del ’72, indirizzò una lettera aperta a Camilla Cederna (con toni, per altro, abbastanza sgradevoli) accusandola in sostanza di una profonda ipocrisia e incoerenza, da «regina dei salotti» a «innamorata dei bombaroli». Col tempo il termine ha preso due diverse strade: da un lato l’accezione sempre politica di quei privilegiati che professano desideri di riforme sociali per darsi toni di progressismo solo perché protetti dal proprio status socio-economico; dall’altro, in contesti quotidiani, il termine descrive chi si dà arie di finto intellettuale, ostentando gusti raffinati e sempre contro ogni manifestazione del “mainstream”, diciamo un hipster all’ultimo stadio. Su Twitter, ad esempio, il termine radical chic è associato a parole come “professoroni”, “intellettuali”, “saccenti” visti come acerrimi rivali, per parafrasare un tweet, «dalla gente per bene che lavora, suda e manda avanti il paese» sempre tacciati di buonismo ipocrita e dotati, secondo un altro utente Twitter, di «un'imperdonabile predilezione per congiuntivi, consecutio temporum e distacco dalla realtà». 

@giadabiaggi #radicalchic suono originale - giadabiaggi

Una concezione che, quando si sposa a questioni politiche come il riscaldamento globale, le riforme economiche, le politiche sulla migrazione, si colora di un inquietante antiscientismo che separa la conoscenza astratta e libresca dei ricchi intellettuali con la cognizione soggettiva, post-fattuale e non filtrata dal politicamente corretto dell’uomo comune che, biblicamente, “suda” – implicitamente dando a quest’ultimo maggiore dignità che al radical chic il quale, apparentemente, vivrebbe di rendita come un nobile dei tempi del Re Sole. L’associazione è pericolosa: se l’università privata è sicuramente appannaggio degli abbienti, il desiderio di coltivarsi una cultura personale e ampliare la propria coscienza non ha una natura politica ma umanistica. E dalle parole degli utenti anonimi che abbiamo citato pare quasi che volersi istruire significhi già volersi arrampicare al di sopra del proprio ceto sociale, mentre l’ignoranza sarebbe una cosa da rivendicare dato che chi lavora e suda non ha certo tempo di imparare paroloni e approfondire conoscenze che non mirino direttamente al guadagno monetario – un punto di vista un po’ gretto, che ignora la forte storia di intellettualismo della sinistra (pensate a Gramsci) e favorito dalla politica che non vuole certo elettori capaci di distinguere, di comprendere le sfumature, riconoscere le complessità di una certa questione.

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Il radical chic istruito dunque è un nemico che, parafrasiamo nuovamente, «crede di avere la verità in tasca» - espressione che implica come chi stia parlando pensi anche lui avere la verità in tasca. Il conflitto si è allargato. In effetti, c’è chi ha definito Martin Scorsese un radical chic quando ha detto che i film Marvel non sono cinema; c’è chi definisce radical chic i ristoranti di prestigio, opponendoli alla genuina e autentica trattoria che, a sua volta, diventerà radical chic quando proverà a modernizzare gli arredi e i menu dopo 60 anni di gestione familiare. Wes Anderson è un radical chic, Christian De Sica un’icona nazional-popolare.

Tanto un amante della musica classica che un fan della musica alternativa sono radical chic dato che snobbano la musica della radio, ma anche chi sposa una qualunque causa rispetto a un’altra è radical chic – a patto che le due parti che contendono per aver ragione abbiano rispettivamente un punto di vista davvero radicale (tipo inneggiare alla pena di morte) e uno più ponderato e garantista che presenta soluzioni più mediate e complesse. Si tratta, in fin dei conti, di semantica, giochi di significati che nascondono conflitti sociali antichi quanto la civiltà stessa in cui si sommano risentimenti sociali, invidie, incomprensioni, ipocrisie. Eppure una delle definizioni date dalla Treccani al termine può suggerire una qualche saggezza: secondo l’enciclopedia i radical chic «si atteggiano a sostenitori e promotori di riforme o cambiamenti politici e sociali più appariscenti e velleitari che sostanziali». E in questi anni di attivismo social, in cui tutti abbiamo quell’amico che su Instagram ci tartassa con dati, denunce sociali e raccolte fondi, in cui anche il make-up è diventato territorio di contesa politica, il pericolo più insidioso è quello della superficialità e del velleitarismo, del moralismo delle apparenze, dell’idea che basti fare un corteo e bloccare il traffico, o urlare un How dare you? per cambiare le cose senza conoscere e interagire con le strutture di potere che esistono già pensando di poter cambiare il mondo con il “potere dell’amicizia” e le good vibes. Dopo tutto, chi ha paura di un radical chic?