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Il mondo dell’arte ha un problema con l’arte Instagrammabile?

Perché le mostre acchiappa-like non piacciono ai critici d'arte

Il mondo dell’arte ha un problema con l’arte Instagrammabile? Perché le mostre acchiappa-like non piacciono ai critici d'arte

Negli ultimi anni sempre più mostre propongono esperienze coinvolgenti e adatte alla condivisione su social network come TikTok e Instagram, pur essendo prive di vocazione e spessore artistico. È il caso ad esempio dell’esposizione “Van Gogh Experience”, dove decine di proiettori mostravano su pareti, pavimentazioni e soffitti animazioni digitali raffiguranti centinaia di opere del pittore olandese Vincent Van Gogh. I visitatori sono invitati a sedersi o a muoversi a piacere nello spazio espositivo, ascoltando la musica spesso classica e incalzante che accompagna le immagini, facendosi – perché no – fotografare a loro volta. Bloomberg ha raccontato che “Immersive Van Gogh” – proposta da un’azienda canadese in diverse grandi città statunitensi – ha venduto un numero enorme di biglietti, 3.2 milioni, diventando l’attrazione mondiale di maggior rilievo sul sito Ticketmaster.

Questo genere di esperienze immersive ha avuto un tale successo che è stato replicato con altri artisti famosi, come Pablo Picasso, Claude Monet, Frida Kahlo e Gustav Klimt. La maggior parte delle opere riprodotte da questo nuovo genere di esposizione sono di pubblico dominio, dato che i loro autori sono morti da molto tempo, e quindi possono essere reinterpretate e ricontestualizzate a costi relativamente ridotti, affidando a degli esperti di grafica il compito di inserirle all’interno di lunghi filmati molto appariscenti e coinvolgenti. «L’arte viene usata come sfondo per i post su Instagram, che servono sia a creare un ricordo online che a mostrare a tutti che sei stato in quel posto», ha commentato la ricercatrice Chiara Palsgraaf

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Ci sono poi società private che organizzano mostre temporanee allestite appositamente per diventare lo sfondo di un selfie, con colori sgargianti e oggetti di scena. Va in questa direzione il Museum of Ice Cream, nato inizialmente a New York e poi aperto anche ad Austin, Chicago, Singapore e Shangai: l’allestimento si compone di una serie di stanze arredate in modo caotico, con muri rosa, coni gelato che pendono dal soffitto, gonfiabili che riempiono un’intera stanza e una piscina di caramelle finte. Quando ne è stata annunciata l’apertura, nel 2016, i primi 300 mila biglietti –  al prezzo di 18 dollari l’uno – sono andati sold out nell’arco di cinque giorni. Dopo il Museum of Ice Cream questo genere di "musei per selfie", come sono stati definiti dagli esperti, ha aperto in tantissime altre città. A Milano e Roma, per esempio, negli ultimi due anni c’è stato il “Balloon Museum”, dove – per poco meno di 20 euro a biglietto – tra le altre cose si poteva fare il bagno in una vasca di palline di plastica. Il fenomeno è stato molto criticato perché sempre più aziende private decidono di investire nelle esposizioni “immersive”, attirate dal crescente numero di persone disposte ad andarci, fotografarle e condividerne i contenuti sui social.

Il critico d’arte Alex Fleming-Brown ha scritto un articolo su Vice, dove ha dichiarato: «Forse la cosa più ironica è che il pubblico principale di questi spettacoli “immersivi” è su Internet, dove è di fatto impossibile fare esperienza delle presunte caratteristiche “immersive” di queste mostre». Senza avere lo stesso peso artistico, tali mostre prendono superficialmente ispirazione da installazioni artistiche proposte da istituzioni molto importanti nel mondo dell’arte contemporanea, come la Biennale di Venezia, il Museum of Modern Art di New York o il Tate Modern di Londra. È il caso di Infinity Mirror Rooms di Yayoi Kusama e Rain Room, del collettivo artistico Random International: nonostante abbiano avuto un enorme riscontro mediatico e di pubblico, quelle opere non erano state create appositamente per avere successo sui social network.

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Il problema principale delle mostre cosiddette “immersive” non è che «non sia vera arte», scrive la giornalista Kelsey McKinney sul sito di cultura Defector, è che si tratta in larghissima parte di operazioni puramente commerciali che non contribuiscono al lavoro dei curatori, a rendere più sostenibili i musei pubblici, o a contribuire – né economicamente né culturalmente – il tessuto culturale dei grandi centri in cui passano: «Gli obiettivi dell’arte e gli obiettivi del mercato non si intersecano [...]. Questo è il problema delle mostre tipo “Van Gogh Experience”: il loro intento non è l’educazione, l’ispirazione o la meraviglia. È ottenere profitti infiniti e certi. E non c’è bisogno di un curatore per proiettare un dipinto su un muro».