FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

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Alla moda ormai piacciono i loghi piccoli Piccoli caratteri, grande impatto

Durante l’ultima Paris Fashion Week - una settimana carica di aspettative, svolte ma soprattutto debutti - l’ecosistema della moda ha notato una cosa: le proposte parigine non traggono più la loro forza dal rumore e dall’opulenza, ma dalla discrezione, dal silenzio e soprattutto dai dettagli. Ne sono prova le prime collezioni di prêt-à-porter femminile di Jonathan Anderson per Dior e di Matthieu Blazy per Chanel che, pur cariche di piume, cappelli voluminosi e lunghi strascichi senza fine, hanno brillato per il piccolo, se non per l’infinitamente piccolo, presentando loghi discreti, quasi impercettibili, che con la loro forza tranquilla hanno fatto quasi più rumore di certe manifestazioni tipografiche più vistose del passato.

Appena varcata la soglia degli atelier Dior, Jonathan Anderson ha deciso che era giunto il momento del cambiamento, dando al logo della Maison francese una forma nuova, o meglio nuovamente antica. Il designer irlandese ha infatti scelto di mettere da parte il logo in maiuscolo, introdotto nel 2018 da Maria Grazia Chiuri e Kris Van Assche, per tornare alle origini, le vere origini: un logo con lettere minuscole (ad eccezione della D iniziale), quello scelto da Christian Dior nel 1946.

Per quanto riguarda Chanel, ora sotto la direzione di Matthieu Blazy, non è stato il suo leggendario doppio C a subire una cura dimagrante, bensì il lettering della Maison Charvet, storica istituzione che forniva le sue camicie alla casa di rue Cambon già ai tempi di Gabrielle Chanel, e con la quale ha collaborato nuovamente per la FW26. Il cognome del pioniere della prima camiceria al mondo è infatti apparso sulle famose camicie ricamato in corsivo, trovando il perfetto equilibrio tra sottigliezza e richiamo evidente ma non assordante.

Nella moda, i loghi erano già passati in modalità invisibile ben prima di questi recenti e notevoli restyling. Qualche mese fa, vi avevamo fatto notare che i loghi dei grandi marchi, da Miu Miu a Balenciaga passando per Louis Vuitton, si stavano lentamente liberando dei fili ricamati, colorati e rumorosi, per passare a una seconda dimensione, fondendosi quasi con il tessuto e diventando un tutt’uno con il capo su cui apparivano. La logomania un tempo febbrile, se non addirittura epidemica, è forse diventata timida? Secondo la Cina e il fenomeno del luxury shame, che da oltre un anno condanna la moda di lusso, sì. Secondo la Francia, si tratterebbe piuttosto di un nuovo modo di attrarre attenzione, ma soprattutto di generare visualizzazioni e vendite.

Questa ritrovata semplicità, inaugurata dalla nuova generazione di direttori creativi, non è soltanto una ricerca di discrezione estetica quanto il simbolo di un ritorno alle origini attraverso una narrazione sì conosciuta ma non ripetitiva, che non solo ancora il nuovo designer nella storia della maison, ma crea anche buzz grazie a un fattore nostalgia che funziona sempre. Così, l’antico diventa nuovo, la rarità diventa abbondanza e l’abbondanza si trasforma in vendite.

Per i collezionisti, i capi delle nuove collezioni si impongono come vere e proprie reliquie ancor prima di essere esposti nei negozi. Per la nuova clientela e le nuove generazioni, rappresentano una particolare comprensione della maison e del suo patrimonio senza però cadere nel desueto, inscrivendosi anzi perfettamente nello spirito del tempo. Una continuità storica che non si ripete ma si reinventa, aumentando così non solo il valore delle nuove collezioni ma anche il loro prezzo di rivendita. Tanto più che, quanto più i loghi sono piccoli, tanto più sono difficili da copiare per i falsari.

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A dimostrazione che una piccola sfumatura tipografica può a volte fare una grande differenza, anche da un punto di vista giuridico, poiché tutti questi nuovi loghi rendono la vita più difficile non solo ai falsificatori, ma anche ai verificatori di autenticità. Una lettera più alta rispetto alla collezione precedente, uno spazio più ampio tra i caratteri o anche un angolo leggermente diverso può infatti cambiare tutto. Il lavoro dei verificatori deve quindi essere più approfondito: la loro analisi non si limita più al logo principale, ma estendersi ai dettagli temporali, agli indizi di produzione e all’intero packaging. Quanto ai sistemi informatici, essi devono essere sottoposti a un riaddestramento frequente, mentre un’aggiornamento dei loro algoritmi e database è indispensabile per seguire correttamente l’evoluzione dei marchi, evitando così di generare falsi negativi su prodotti autentici.

Per Chanel, Dior e molte altre Maison e i loro loghi ormai passati (o che passeranno) in modalità silenziosa, questo cambiamento tipografico discreto non rappresenta dunque solo un dettaglio estetico minimo, ma una vera e propria strategia ben studiata. Tra la costruzione di una forza narrativa e la creazione di un’aggiunta di valore economico e sentimentale, questa rivoluzione del dettaglio dice, attraverso poche lettere, molto più di quanto riescano a trasmettere grandi dichiarazioni altisonanti. Il linguaggio dell’eredità è decisamente la lingua franca della moda.