
L'alieno fascino della borghesia nella FW25 di Prada
La collezione femminile del brand riporta i tropes del vestire bon ton al loro stato di natura
27 Febbraio 2025
Quello della borghesia e del vestire borghese è un interesse che regna da sempre sulle passerelle di Prada. Una serie di codici che non sono né popolari né aristocratici che si fanno portatori di valori morali e sociali il cui comune punto di fuga sono un senso di stabilità, di centramento che è sia estetico che culturale. La domanda che Miuccia Prada e Raf Simons paiono essersi posti con la collezione femminile FW25 di Prada riguardava esattamente questo centramento: cosa accadrebbe spostandolo? Come scompigliare un sistema di vestiti che è anche un sistema di valori? La risposta è stata data sotto forma di proporzioni alterate, dettagli vezzosi come fiocchi e mega-bottoni d’altri tempi che vengono animati da un design quasi grezzo, volutamente imperfetto, in cui le gonne a vita alta si comprimono piegandosi, in cui le classiche ed eteree bluse con fiocco diventano rigide giacche di pelle, in cui la nobile pelliccia assume proporzioni e tagli che esagerano e astraggono l’anatomia. Quasi come se gli abiti, coi loro orli non finiti, i loro orpelli che proprio perchè datati parevano così interessanti, stessero alludendo alla progressiva decomposizione della borghesia che rappresentavano, pendendo sull'orlo della riconoscibilità prima che segni e significati si sgretolino - un processo di alienazione che Prada fa spesso, questa volta con un tono quasi sardonico e tipico della cerebralità un po' cupa e vagamente pessimistica di Raf Simons. Il leitmotiv della collezione è stato un abito anni '60, apparso sotto diverse variazioni, che cadeva squadrato sui corpi delle modelle, evitando di disegnarne il profilo e quasi distorcendolo attraverso dettagli in vita che parevano deliberatamente posti più in basso, con una silhouette che, più che allungarsi, calava e da cui, di tanto in tanto, emergeva una camicia dal colletto rigorosamente scomposto.
Il senso di “crudezza” che trasformava gli abiti veniva, come dicevamo, dai molti orli vivi delle gonne, dalle brusche pieghe che trasformavano le gonne in altrettante angolose fisarmoniche, dai mocassini e dagli stivali dalla punta aperta, dall’asimmetria dei pendenti che decoravano (in un rimando alla collezione uomo vista a gennaio) i colli di giacche e maglioni. Una serie di abiti decorati da lisergiche stampe a fiori e un’enorme pelliccia ricoperta da uno strato di materiale sintetico avevano un distinto sapore Raf Simon-esco, così come la studiata e per certi versi teatrale scompostezza dei drappeggi ha portato una ventata dell’aria di Anversa negli spazi meticolosamente ordinati della milanese Fondazione Prada - la stessa "aria di Anversa" che si sente in molta della produzione di Demna e che altro non è che l'eredità del patriarca Martin Margiela. Vestigia della milanesità del brand, strette dalle modelle in quasi ogni look, erano le borse che aggiungevano un tocco di delicatezza e preziosità a una serie di look che tra compressioni, texture inattese e silhouette contratte sembrava voler distruggere e corredere i connotati di un guardaroba bon ton che comunque ricalcava. Ma sempre tipico di Prada era anche quell'occhio comunque sempre affettuoso nei confronti di una femminilità più tradizionale e retrò che non veniva rigettata, derisa o criticata ma semplicemente riplasmata secondo un'intuizione più nuova e moderna. Assai più tipici nel loro sapore di classico Prada erano i look che univano una camicia con profili a contrasto simile a quella di un pigiama di seta con una gonna verde menta, stropicciata ad arte il cui pallido colore ricordava le uniformi (questa volta infermieristiche) tanto amate dalla Signora Prada – ma anche una combinazione di leggera e impalpabile camicia abbinata a una gonna quasi scultorea tagliata nello stesso cuoio della borsa che, in pendant, l’accompagnava.
Al di là dell’anima fortemente vintage di tutti gli abiti destrutturati con colletto ed enormi bottoni retrò, la sensazione che dominava la passerella era quella di una normalità alterata – i vestiti in maglia con fiocchetti indossati sopra i jeans o i pantaloni sartoriali dal taglio sottile sovvertivano un tipo di look (quello del top lungo sopra i pantaloni slim) abbastanza tipico di certe mature e in carriera in occasioni meno formali. Ma anche i corposi maglioni melange che si scontravano con le gonne infiocchettate e ricoperte di bottoni restituivano il senso di una donna di intellettualità complicata e orgogliosamente esibita – non per questo meno consapevolmente e ironicamente leziosa. In generale, molti tropes del vestire formale, con i tailleur in lana dalla grammatura pesante, le gonne a quadri o di pelle ma anche i cappotti con annessa stola di pelliccia, trovavano nuova vita attraverso questa serie di arricciature irregolari, impunture a rilievo e abitini midi deformati e distorti da costruzioni più larghe che li rendevano quasi astratti e concettuali. Non mancava un recente trope visto già in altre forme sia da Prada che da Miu Miu che è la giustapposizione di un top sportivo e aderente, molto giovanile e spesso estroso, con un pantalone o una gonna dall’enfatica rigidità sartoriale – così come altre firme più o meno sottili del brand rappresentate dall’effetto stropicciato delle camicie e da quell’interessante cappotto i cui bottoni parevano essere sostituiti da spille di madreperla, simili a grappoli d’uva.