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i-D Magazine è salvo, ma a che prezzo?

Un’acquisizione che la dice lunga sul futuro dell’editoria indie

i-D Magazine è salvo, ma a che prezzo? Un’acquisizione che la dice lunga sul futuro dell’editoria indie

È esistito un tempo in cui la top model Karlie Kloss era nota per essere la protagonista dei più controversi editoriali del periodo pre-culture wars: quello del 2017 in cui era travestita da geisha in Giappone, quello del 2011 (di cui venne anche rimossa una foto ex-post) che esaltava il suo corpo malsanamente magro; ma anche lo show di Victoria’s Secret in cui si era travestita da sexy-indiana con bikini e copricapo piumato o quello di Marc Jacobs in cui indossava una parrucca di dreadlock color arcobaleno. Le controversie per Kloss, una delle modelle meglio pagate al mondo, sono proseguite dopo il matrimonio con Joshua Kushner, fratello del genero di Donald Trump e uomo d’affari dal net worth di 3,6 miliardi di dollari. Nel post-pandemia, Kloss si è lanciata nell’imprenditoria guidando il gruppo di investitori che salvò W Magazine nel 2022 e, di recente, acquisendo i-D Magazine. David Martin di Odda Magazine sottolinea quanto «I-D faccia parte della storia e della cultura della moda» evidenziando come «l'acquisizione da parte di Karlie Kloss è intelligente, ma anche una questione di evoluzione e di chiusura del cerchio. Una donna che è stata protagonista delle copertine di I-D, che è cresciuta e ha scoperto la moda, ora, in una posizione di potere e di responsabilizzazione, riporta in vita una rivista che è necessaria e fondamentale. Da direttore di una rivista indipendente, credo sia giunto il momento che questa industria venga aiutata dall'interno e da coloro che stanno dando forma a ciò che intendiamo e conosciamo come "Moda".»

La faccenda diventa tuttavia problematica se notiamo che tutti gli articoli pro-Palestina sono stati rimossi dal sito di i-D facendo supporre a molti che la top model dalle posizioni liberal fosse ufficialmente entrata nel business della famiglia Kushner, che ha già il proprio dito nel mondo dei media attraverso Observer Media, azienda controllata dal trust di famiglia, e che molti sospettano essere la vera entità nascosta dietro l’acquisizione. Ma cosa ci dice questo episodio sulle sorti della stampa internazionale oltre che dell’editoria indipendente? A questo proposito, Fabiana Fierotti e Yara De Nicola di Alla Carta tengono a fare una precisazione: «i-D è stata ed è una delle testate più importanti nel panorama dell'editoria di moda contemporanea. Non si può parlare però di editoria indipendente, già da anni la rivista era parte del gruppo Vice Media. Il passaggio a Karlie Kloss sotto questo punto di vista è assolutamente positivo, anche solo perché si tratta di un individuo e non di un gruppo o di un fondo investimenti senza volto». Il periodo a cui le due si riferiscono è il 2012, quando Vice Media acquisì il magazine e mettendo fine, almeno tecnicamente, a trentadue anni di indipendenza. Ma la cosa è comprensibile. «Essere un magazine "di nicchia" nel 2012 era quasi un difetto, non certo un asset», continuano Fierotti e De Nicola. «Oggi, finalmente, anche i principali marchi del lusso hanno capito che è proprio quella nicchia che è parte fondamentale del loro target di riferimento e che è quindi strategico investire su testate indipendenti piuttosto che su riviste mainstream».

E a proposito di riviste mainstream, negli scorsi giorni è finito sotto i riflettori un editoriale di Vogue dedicato a Jeff Bezos e alla futura moglie Lauren Sànchez. Il servizio è parso un cosiddetto puff piece, ovvero una gigantesca marchettata, alla quasi totalità degli utenti le cui opinioni potremmo riassumere con questo commento apparso sotto il post Instagram di Vogue: «Money can’t buy you class, but it can buy you a Vogue spread». In generale, il servizio raccontava di personaggi pubblici dal grande conto in banca ma in fin dei conti poco rilevanti o aspirazionali, con poche o nessuna connessione alla cultura di oggi - in breve, nessuno sentiva il bisogno di conoscere i progetti di vita di questa ricca e privilegiata signora, i quali non meritavano davvero le pagine di Vogue o l’attenzione del pubblico. Ora, l’idea che la stampa sia nel pugno dei ricchi e dei potenti di questo mondo non è una sorpresa: dai leggendari e famigerati Murdoch alla ricchissima dinastia Newhouse che possiede Advance Publications (di cui Condè Nast e Vogue sono il gioiello della corona) oltre che partecipazioni in Warner Bros. Discovery e in Charter Communications, il secondo più grande operatore via cavo degli USA. E a fronte di enormi budget e titaniche reti distributive in tutto il mondo, gli interessi di questi grandi editori sono sempre più spesso disallineati rispetto alla cultura “vera” e sempre più incapaci di narrare il mondo e intercettare gli interessi dei lettori prima che questi si manifestino. In una parola, sono commerciali.

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Certo, le numerose riviste indipendenti che esistono oggi, pur soggette all’influenza dei propri inserzionisti, possono sicuramente gloriarsi di uno status culturale autonomo, meno schiavo di una celebrity culture frivola e superficiale che deve per forza mantenersi generalista per sostenere alti volumi di vendita. E se oggi il ruolo di occhio critico della moda è stato assunto da una nuova generazione di giornalisti indipendenti online, che si muovono con disinvoltura tra i media digitali e quelli cartacei (Bliss Foster e Odunayo Ojo sono tra i più famosi, ma c’è anche il caso di Brenda Weischer che da  freelance è entrata in 032c) il ruolo più creativo e visuale dell’editoria è stato ricoperto da pubblicazioni come Odda, Alla Carta, L’Etiquette Where is the cool? che oggi sono realtà pienamente riconosciute dall’industria e lavorano anche con produzioni di alto profilo. A livello istituzionale, invece, un brand come Bottega Veneta ha supportato la pubblicazione dello storico Butt Magazine mantenendone comunque l’indipendenza editoriale dimostrando una rara sensibilità culturale: proprio in quell’indipendenza si trova il valore della rivista. «Si ricerca libertà, creatività, un occhio che possa davvero dare un'interpretazione personale del proprio prodotto», ci hanno spiegato Fierotti e De Nicola di Alla Carta. «Questo crediamo possa essere il futuro di progetti come il nostro. Non grossi fondi di investimento, piuttosto una crescita sostenibile, in cui rimanere coerenti alla propria linea editoriale ed essere valorizzati proprio per questo». Ma, al di là dell’interpretazione del prodotto, esiste nella scena editoriale indie la capacità di mettere o rimettere in discussione le cose?

Di un’editoria indipendente tutti sentono il bisogno, insomma, e alla domanda corrisponde un’offerta: oggi, le migliori boutique multimarca includono anche la carta stampata nella propria curation e svolgono la funzione di edicole “elevate” per una produzione che si manifesta tanto negli abiti che nel design e nelle riviste di settore ma che è anche rivolta a un pubblico iper-specifico di cultori. Ma questa galassia di riviste per specialisti deve anche preoccuparsi di sviluppare una dimensione e uno sguardo critici per evitare di scivolare in narrazioni e letture troppo facilmente entusiastiche della moda in un’epoca in cui la comunicazione pilotata e “di regime” è ai massimi storici. Insomma, pur in un momento propizio per lo sviluppo di queste riviste non ci sono cavalieri senza macchia o senza paura. «La mia impressione, senza generalizzare, è che pochi magazine indipendenti questionino lo status quo», ci ha detto Angelo Flaccavento, interpellato sulla questione. «Si muovono nella stessa melma estetica, pasticciata e finto-spontanea del mainstream. Ci sono poche identità ben definite o originali, e un eccesso di riferimenti anni ’90, o di strutture editoriali che trasformano il giornale in una scatola di tutto e di più, senza un preciso punto di vista». Uno stato di frammentazione che è lo stesso che si riscontra in un’industria sempre più suddivisa in micro-community e piccole cerchie in cui si avverte comunque la mancanza di realtà più trasversali capaci di instaurare dialoghi con comunità esterne alla “bolla” della moda e diventare veri e propri pilastri dell’immaginario collettivo come accadde con i-D che negli anni divenne un canale di rappresentazione alternativo al mainstream, un laboratorio di innovazione e una vera e propria palestra per un’intera generazione di grandi talenti che oggi dominano l’industria dall’alto. 

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Ed è proprio questo che circonda l’acquisizione di i-D Magazine di una completa ambiguità: Karlie Koss sarà forse la girlboss che salva pubblicazioni indipendenti in difficoltà, ma non si può ignorare che la top model si siede ogni sera a cena coi Kushner, una famiglia miliardaria i cui giganteschi capitali avranno avuto qualcosa a che fare con il deal annunciato ieri e le cui mani affondano profondamente nella politica. La rimozione sistematica di ogni contenuto o commento pro-Palestina dal magazine e dai social di Kloss la dice lunga – ma se questa pratica non è del tutto inusuale, il fatto che avvenga con i-D Magazine, un media tradizionalmente progressista che segnò l’inizio della carriera di pilastri dell’industria come Edward Enniful e Pat McGrath fa suonare questa acquisizione come uno smacco. Tanto che viene da domandarsi a vantaggio di chi vada l’intera operazione. Chiaro, l’attuale editor-in-chief del magazine, Alastair McKimm, avrà un proprio peso e una sua autorità nel mantenere l’integrità della linea editoriale sotto il nuovo management - anche se permane il sospetto (che speriamo venga smentito) che il magazini rischi di diventare l’altoparlante di interessi diversi rispetto al passato. Di interessi, intendiamo, che vadano oltre quelli di curare un buon magazine.