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La rivincita degli sweatpants

La nostra divisa da quarantena ha molto più a che fare col divano che con lo sport

La rivincita degli sweatpants La nostra divisa da quarantena ha molto più a che fare col divano che con lo sport

You’re telling the world ‘I give up. I can’t compete in a normal society. I’m miserable so I might as well be comfortable’.

Jerry Seinfeld, guru del normcore e testimonial ad honorem delle Nike Shox, rimproverava così l'amico George, sorpreso per l'ennesima volta ad indossare un paio di sweatpants - i pantaloni della tuta, quelli morbidi, non aderenti, con l'elastico in vita, e possibilmente anche alle caviglie - in una delle scene più famose della sua sitcom omonima. 

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I’m miserable, so I might as well be comfortable.

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In queste giornate di quarantena siamo tutti un po’ George, ammettiamolo: con il passare delle settimane abbiamo dimenticato i buoni propositi sul vestirsi e sistemarsi come se dovessimo effettivamente uscire di casa e andare al lavoro. Ci siamo stufati presto dei workout online e delle app di training, non appena abbiamo capito che questa estate non potremo metterci in costume ci siamo rassegnati (e che i soldi dell’abbonamento per la palestra sono ormai persi). Sembriamo perennemente Ben Stiller ne I Tenenbaum, gli altri vestiti appesi nell’armadio guardano con invidia la tuta da cui non ci separiamo mai. 

Negli ultimi giorni ha ceduto persino lei. Nonostante il caschetto sempre impeccabile, gli immancabili occhiali scuri, al cardigan bon ton - per non sfigurare nelle video chiamate - Anna Wintour ha abbinato dei comunissimi e normalissimi pantaloni della tuta, forse addirittura un po’ sgualciti, gli stessi che solo qualche mese fa aveva giurato di non possedere nemmeno. Ma questa quarantena ha cambiato tutto, per tutti, e anche se sei la direttrice di Vogue USA, nonché donna più potente del mondo della moda, o proprio in virtù di tutto questo, un paio di pantaloni della tuta li puoi sfoggiare, eccome. 

Siamo onesti, però, la Wintour è voluta salire sul carro del vincitori, e l’ha fatto anche un po’ in ritardo: noi comuni mortali saranno due mesi che viviamo in tuta, il nostro unico e vero hobby quando avevamo ancora una vita frenetica e i weekend significavano solo spalmarsi sul divano in tuta (bei tempi vero?). Ed è proprio questo il punto. Indossare una tuta, cambiarsi d’abito rinunciando a jeans, camicie e gonne, per infilarsi in morbidi pantaloni di cotone, oggi ha molto più a che fare con il relax, che con lo sport. Che il nostro guardaroba debba tantissimo al mondo dello sport lo sappiamo, pensiamo solo al successo delle sneaker negli ultimi trent'anni. Qualcuno ha addirittura ipotizzato che tutto quello che indossiamo è athleisure, e mai come oggi questa affermazione è veritiera. 

Per l'invenzione della tuta da ginnastica dobbiamo ringraziare il fondatore di Le Coq Sportif, Émile Camuset, che negli anni Venti creò un'alternativa comoda in cui allenarsi e correre, pensata per gli atleti professionisti. Segue qualche anno dopo una creazione simile, questa volta per la Nazionale italiana impegnata alle Olimpiadi Estive del 1932, firmata da Ottavio Missoni. Ma è grazie alla cultura pop che la tuta travalica definitivamente il confine dettato da piste di atletica e palestre professionistiche, e scalando gli scalini di Philadelphia diventa l'item più desiderato - e indossato del momento. Rocky aveva creato un ideale popolarissimo, ma saranno i video di workout a segnare la consacrazione definitiva dell'estetica sporty. 

Le cassette con gli allenamenti di Jane Fonda sono un game changer del settore, non solo perché rivoluzionano il guardaroba degli anni Ottanta, decretando il successo di leggings aderenti e di brand come Reebok, all'epoca vero e spesso vincente competitor di Nike, ma soprattutto perché riflettono un cambio di mentalità. Nasce il mito dello stile di vita sano, fatto di diete, frullati salutari, workout semplici, da fare tutti i giorni, nel salotto di casa, senza bisogno di un personal trainer o di pagare. Diventa di conseguenza accettabile indossare quegli stessi abiti per uscire di casa, senza relegarli più solo ed esclusivamente all'idea di allenamento, soprattutto per mostrare di seguire quello stile di vita, cool e alla moda. 

Allo stesso tempo, l'altra faccia della medaglia dell'healthy lifestyle di una delle future protagoniste di Grace&Frankie, è l'avvento di nuovi hobby sedentari, come i videogiochi, per cui un pantalone comodo era l’ideale per passare lunghe ore sul divano. Il momento che stiamo vivendo ora, queste giornate di lockdown casalingo, offrono una parabola simile a quella del decennio d’oro di Jane Fonda, con l’eccezione che oggi per l’attività fisica prediligiamo tessuti tecnici, leggings e soluzioni pensati appositamente per attività diverse, mentre la tuta più casual è l'alternativa elegante al pigiama. 

L'impatto che la cultura hip-hop avrà di lì a poco sull'iconografia e sul successo della tuta è senza precedenti. Quella che inizialmente era un'alternativa comoda ma alla moda per muoversi con facilità e quindi di fare break dance e di ballare nei club, diventa una divisa, l'uniforme di una sottocultura che intreccia musica, moda, black culture e danza. Non esiste niente di più rappresentativo dello stile dei Run DMC con le loro tracksuit di adidas, entrato definitivamente nell'immaginario collettivo. 

E' prerogativa della moda contemporanea mischiare ambiti e ispirazioni. Il 2013 è l'anno in cui l'athleisure trend diventa mainstream, con tantissime catene low cost e non, da H&M a Urban Outfitters, che iniziano a commercializzare vere e proprie collezioni di item sportivi, mentre le vendite dei jeans, il capo di abbigliamento più trasversale e quindi di successo in tutto il mondo, iniziano a scendere significativamente. A contribuire all'ulteriore successo del trend, intervengono i designer del momento, da Gosha Rubchinskiy, che tra Post-Soviet e resurrezione dello stile Chav, collabora anche con adidas, a John Elliot, fino ad arrivare alle alternative luxury dello sweatpants, firmate Louis Vuitton, Off-White, e Gucci, la stessa Champion si lancia in collaborazioni con Supreme e Rick Owens tra gli altri.

Lo diceva anche Childish Gambino, all'anagrafe Donald Glover, nella canzone Sweatpants. Senza mai citare l'item in questione il rapper americano giustificò la canzone dichiarando che "le persone ricche possono indossare quello che vogliono". Spiega questo concetto nella prima puntata del suo nuovo show, #BlackAF, Kenya Barris, creatore di Black-ish, che nel suo nuovo mockumentary su Netflix racconta lo stile e i vezzi di un afroamericano self-made e arricchito, primo fra tutti la tracksuit - di velour, in tessuto tecnico, logata, coordinata -, firmata Gucci, Balenciaga, Off-White, Fendi, Fear Of God, unico item nel suo armadio, ma mai per fare sport, solo per fare business. 

Nel 2019 l'industria dell'athleisure valeva $167 miliardi di dollari, una cifra destinata a salire nel 2020 a giudicare dalla crescita nelle vendite solo degli sweatpants dall'inizio dell'anno (+39%). Perché se passiamo le giornate a casa, svogliati e demotivati, miserable come solo il buon George Costanza sa esserlo, meglio farlo in una tuta nuova di zecca.