La moda secondo i finalisti di Camera Moda Fashion Trust 2025 La nuova generazione di designer parla di cosa dovrebbe cambiare nella moda
La quinta edizione del Camera Moda Fashion Trust si è chiusa con un importante traguardo per la scena del Made in Italy indipendente: quattro brand — Lessico Familiare, Institution, Francesco Murano e Moja Rowa — sono stati premiati con grant da 50.000 euro ciascuno e un percorso di mentoring strategico, pensato per accompagnarli nella crescita sostenibile e creativa. La selezione finale, svoltasi a Villa Necchi Campiglio giovedì 29 maggio, ha visto protagonisti dieci talenti emergenti, scelti fra circa 80 candidature da una giuria tecnica. Abbiamo voluto sentire da vicino le loro idee, le loro ambizioni e la loro visione su un mondo della moda che oggi vive un momento di forti cambiamenti, criticità e potenzialità. Per ciascuno dei finalisti, ad esempio, quello dell’autenticità è stato un tema centrale, declinato in diverse sfumature. Giuseppe Buccinnà, per esempio, ci racconta la sua lotta personale per mantenersi fedele a sé stesso in un settore spesso dominato dalle apparenze: «Mi piacerebbe semplicemente riuscire a essere me stesso. Nel mondo della moda, e più in generale in questo mondo di apparenze, riuscire a rimanere coerenti con sé stessi è un valore. Può sembrare scontato, ma per me è un obiettivo concreto, a medio e lungo termine». Federico Cina, invece, si concentra su come il settore spesso abbia perso questo contatto con la realtà e con la gente comune: «Vorrei vivere questa professione in modo più sano, perché oggi il mondo della moda, purtroppo, non è sempre onesto. Quando ho fondato il mio brand volevo portare avanti un progetto autentico, semplice, genuino. Dare valore alla quotidianità, alla provincia, alla campagna, a quello che la moda ha spesso snobbato. C’è bisogno di sdoganare una moda che non sia solo glamour o irraggiungibile, ma che torni a essere vera, accessibile, umana».
Anche Yelena Mojarova ed Edward Benedikt Sittler, il duo dietro Moja Rowa, condividono un’idea simile di autenticità, legata alla loro identità e al rapporto con chi indossa i loro capi: «Il brand è un’estensione di noi stessi, un’espressione personale. Vogliamo trasmettere un messaggio positivo, colorato e sincero, ma anche leggero. La soddisfazione più grande è vedere i nostri amici indossare i nostri vestiti e sentirsi bene dentro ciò che creiamo. Questo per noi è fondamentale: lavorare sulla creatività e tradurla in un messaggio che sia percepibile». Galib Gassanoff di Institution ha invece detto di non voler essere «il classico designer di oggi, un designer da social media. Mi sento più vicino a una visione del design “di un tempo”, in cui chi disegna un capo sa anche come realizzarlo. Non basta mettere qualcosa su carta e poi delegare tutto il resto: è fondamentale conoscere davvero la costruzione di un capo. Il nostro lavoro si misura sul prodotto finito, non su un bozzetto. Vorrei essere un designer che non ha solo un ufficio stile, ma che ha una presenza, una visione concreta e tangibile». Anche Victor Hart ha detto di voler essere «quel tipo di designer i cui capi aiutano le persone a scoprire se stesse — chi sono, chi vogliono diventare e cosa rappresentano davvero»; mentre Martina Boero di Cavia, il cui focus è l’artigianalità dell’upcycling e la sostenibilità delle sue collezioni, ha detto che oltre a essere sostenibili le sue collezioni vogliono essere «reali» occupandosi anche di tracciare i diversi materiali che compongono ciascuno di questi capi. «Voglio creare capi che vengano indossati, acquistati e vissuti», ha detto «altrimenti il mio progetto resta solo un esercizio artistico. Faccio arte, sì, ma creo collezioni di abbigliamento: la mia idea è realizzare capi che durino nel tempo e con cui si possa instaurare un legame affettivo».
Saman Loira, invece, che produce abiti couture ispirati alla natura e a Napoli, lavorando on demand dal proprio atelier, desidera rimanere «non necessariamente di nicchia, ma sicuramente molto focalizzato su un mercato specifico» per potere proseguire a lavorare sul proprio «approccio sartoriale, artigianale e consapevole. Il vero lusso oggi è la consapevolezza», ci dice, «il riciclo, non lo spreco». Dal canto suo, Francesco Murano, nel rispondere alla domanda, ha introdotto un tema che in diversa maniera molti altri hanno toccato nel discutere lo stato attuale della moda: «Il tipo di designer che vorrei essere è sicuramente un designer libero. Libero nel senso più profondo: più cresci, più sei costretto ad adattarti alle dinamiche della moda — non solo quelle di mercato, ma anche creative, produttive, comunicative. Io invece vorrei conservare quel potere decisionale e creativo, senza essere troppo influenzato da queste logiche. Questo desiderio è legato al clima attuale della moda, che è sempre più orientato alla capitalizzazione». Questa tensione fra l’ambizione creativa personale e un ambiente commerciale complesso e iperspeculativo è ciò che è emerso quando le conversazioni che abbiamo avuto con i vari finalisti. Molti finalisti hanno in effetti denunciato un ambiente dominato da un’eccessiva rincorsa al guadagno a scapito della creatività. Per Murano, ad esempio, «il vero problema della moda oggi è la perdita dell’equilibrio tra arte e mercato. Si cerca il guadagno prima di tutto, e spesso a scapito della creatività. In Italia, poi, mancano ormai dei punti di riferimento forti come c’erano una volta — figure autorevoli che rappresentavano il settore a livello nazionale e internazionale. Alcuni mercati sembrano fare resistenza al cambiamento, e questo è un peccato, perché l’Italia, da sempre leader nella moda e nella manifattura, dovrebbe essere la prima a valorizzare il proprio patrimonio e a dargli il giusto peso.E invece siamo proprio noi, a volte, a non riuscire a riconoscere il nostro valore».
Federico Cina ha una visione simile e precisa sul tema dei prezzi e della sfiducia nel sistema: «Oggi il pubblico percepisce il settore come qualcosa di distante, di poco credibile. I brand hanno alzato i prezzi in modo spropositato, e spesso senza un vero motivo generando un senso di sfiducia. Un tempo la moda era un sogno. Comprare un capo significava acquistare un pezzo di storia, qualcosa che aveva un valore vero, un significato. Ora il valore viene attribuito solo all’inaccessibilità — ma spesso manca una narrazione, manca il contenuto.E questo, secondo me, è un grande problema.» Anche Martina Boero di Cavia descrive il mercato come «caotico», ma vede anche una strada per i giovani designer: «In tempi di instabilità, i grandi brand tendono a giocare sul sicuro, proponendo collezioni più basic. Al contrario, il mercato — in particolare quello asiatico — cerca brand di nicchia, con una forte personalità, da poter mixare con altri stili. E io penso che proprio creare capi con una vera identità sia la strada giusta per far accadere qualcosa di significativo nel futuro». Per Riccardo Scaburri di Lessico Familiare c’è però dell’ottimismo: «Siamo in un periodo interessante, anche se forse più dal punto di vista negativo. È un momento di transizione, forse un punto basso… ma proprio per questo può essere l’inizio di una rinascita». Più eloquente è stato invece Victor Hart per cui la moda oggi è «miope» perché «troppo spesso la componente artigianale viene trascurata, quando invece è l’elemento più essenziale della moda. Noi giovani designer, con una nuova mentalità, nuovi gusti, nuovi valori, vediamo chiaramente cosa manca: profondità. Pochi marchi stanno davvero portando avanti un nuovo linguaggio, raccontando storie con i capi. Se fossi famoso e tutto ciò che faccio è stampare un’immagine su una maglietta basic… è davvero creatività? Può vendere, ma ha significato? I gatekeeper della moda devono aprire le porte ai nuovi creativi — non per cancellare il passato, ma per costruirci sopra. Lo rispettiamo, lo valorizziamo, ma vogliamo andare oltre, svilupparlo, inventare un nuovo linguaggio. È questo, secondo me, ciò che oggi manca alla moda».
Opinione riecheggiata anche da Galib Gassanoff di Insistitution per cui lo stato attuale della moda «è un po’ tragico. Ma anche negli anni ’60 o ’90 c’era chi lo diceva. La verità è che la moda cambia ogni giorno. Quello che possiamo fare è affrontarla con più consapevolezza, e in modo autentico. Dobbiamo rallentare. Basta con l’eccesso, con la corsa continua. Serve più verità, più sostanza, meno velocità.» Domenico Orefice invece ritiene che ci sia «davvero bisogno di brand contemporanei, come quelli portati avanti da noi giovani, capaci di portare freschezza e novità in questo ambiente. C’è bisogno di più spazio. Abbiamo bisogno di luoghi sicuri in cui poter esistere, esprimerci, ma anche di spazi che ci permettano di sbagliare, per capire qual è davvero la nostra strada». Infine, il duo di Moja Rowa ammette che «non è un segreto che sia un momento difficile. Le persone sono stanche, e hanno tutto il diritto di esserlo. È giusto che il consumatore si ponga delle domande. C’è una consapevolezza che sta crescendo. La gente vuole sapere come sono fatte le cose, da dove provengono. C’è bisogno di più trasparenza, perché oggi c’è davvero poca chiarezza. Anche per noi, che cerchiamo di essere sostenibili e trasparenti, non è facile. Fare un prodotto realmente made in Italy, con materiali buoni e processi etici, ha dei costi. Anche se i nostri prezzi sono tra i più bassi sul mercato, produrre una camicia può richiedere dieci ore di lavoro. Ma quel capo dura nel tempo, e sai che non è frutto dello sfruttamento di qualcuno. Questo è un tipo di responsabilità che tutti — grandi brand, istituzioni, lo Stato — devono prendersi. Servono leggi, servono cambiamenti concreti. Perché parlarne non basta più: è da vent’anni che lo facciamo.»
Per Giuseppe Buccinnà il cambiamento deve essere letto in chiave collettiva: «Lo stato attuale della moda è uno stato di grande rivoluzione e, di conseguenza, anche di grande opportunità. Tutto ciò che mette in discussione ciò che è stato e ciò che è — se colto e intuito nel modo giusto — può trasformarsi in un’occasione per le generazioni future. Generazioni che, spero e auspico, sappiano cogliere questo momento come un primo passo per affermarsi come movimento. Perché, in fondo, non credo nel singolo: credo nel sistema. E il sistema deve partire dal basso». Come si può capire, emerge da tutti i finalisti un desiderio condiviso: trasformare la moda in qualcosa di più umano, accessibile e profondamente connesso con chi la crea e la indossa. Victor Hart sintetizza bene questo bisogno: «L’abbigliamento può cambiarti la vita, può aiutarti a scoprire chi sei e chi vuoi diventare. È triste vedere che oggi manca questa profondità. La moda deve aprirsi a nuove identità, gusti, linguaggi.» La moda secondo i finalisti del Camera Moda Fashion Trust è dunque un terreno di grandi sfide — autenticità, sostenibilità, artigianalità, equilibrio tra arte e mercato — ma anche di enormi opportunità, se si saprà valorizzare un sistema che parta davvero dal basso, con un’attenzione autentica e responsabile a chi fa e a chi indossa i capi. Questi giovani talenti rappresentano una speranza per un futuro della moda Made in Italy che non rinunci ai valori, ma sappia innovare con coraggio e consapevolezza.