FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

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Un paio di jeans è davvero politico? Nel corso dell’estate, tre campagne virali hanno riacceso il dibattito sulla politicità del denim

Che piaccia o meno, la pubblicità di American Eagle con Sydney Sweeney ha ormai raggiunto le proporzioni di uno spartiacque culturale e segno dei tempi che corrono. Non solo infatti dire che qualcuno «has great jeans» giocando sull’ambiguità fonetica tra gli effettivi jeans e i “geni”, è diventato una sorta di meme e battuta ricorrente tra chi è terminalmente online; ma la rilevanza culturale che la pubblicità di Sydney Sweeney ha avuto ha generato, nel corso dell’estate, altre due campagne, di Gap e di Lucky Brand rispettivamente, che hanno voluto rispondere alla popolarità e ai messaggi impliciti della campagna di American Eagle. Molti hanno infatti interpretato lo slogan della campagna come un elogio alla "superiorità genetica" rappresentata da una donna bianca, bionda e attraente dopo l’abbandono ormai totale delle più o meno superficiali ambizioni di diversity e inclusivity fatte dal 2020 in avanti. Il fatto che l’amministrazione Trump abbia espresso apprezzamento per la campagna, che Sydney Sweeney stessa sia un membro registrato del Partito Repubblicano e che il CEO del brand, Jay Schottenstein, e la sua famiglia siano considerati da alcuni come sostenitori (anche finanziari) del partito repubblicano e di Trump non ha aiutato a dissipare il sospetto che la pubblicità alludesse ad altro, oltre che ai jeans. E mentre i social si riempivano  di dibattiti su bellezza, privilegio bianco e rappresentazione, Gap ha risposto con una campagna inclusiva con il girl group KATSEYE, un ensemble globale che balla al ritmo di Milkshake di Kelis, totalizzando oltre 20 milioni di visualizzazioni su Instagram. Ad aggiungere una confusionaria nota finale al botta-e-risposta è arrivato anche Lucky Brand, che ha messo Addison Rae in un paio di jeans a vita bassissima in un video più esplicitamente sensuale che ha fatto discutere sulla performatività della nostalgia e sulla mercificazione del corpo. Ma perché proprio l’umile jeans è diventato oggetto di contesa così forte?

La verità è che forse il popolo di Internet sta leggendo troppo a fondo in una questione dove il tempismo e le coincidenze hanno giocato un ruolo più importante che non l’ideologia. Non solo infatti la pubblicità di American Eagle è un rifacimento sfacciato a quella di Calvin Klein con Brooke Shields, dove si dicono le stesse identiche parole, dato che un po' invalida le accuse di voler fare propaganda all'eugenetica; ma al netto di ogni dietrologia, è una cosa tradizionale che il denim venga promosso con campagne di alto profilo in estate, anticipando il back-to-school autunnale e la stagione in cui tutti acquisteranno nuovi abiti per le stagioni più fredde. La loro accumulazione nel corso dei mesi estivi non è casuale, insomma. Se si pensa poi alle tempistiche di una produzione video che includa anche uno o più talent (un’attrice nel caso di Sydney Sweeney, un gruppo intero di performer come le KATSEYE e una popstar, cioè Addison Rae) è impensabile che la pubblicità di GAP, con tutta la sua coreografia, i ballerini e la necessità di autorizzare la riproduzione del brano, sia arrivata come una “risposta” a quella di American Eagle. È più realistico pensare che abbia invece richiesto mesi di preparazione e fosse pronta ben prima dell’uscita di quella di Sidney Sweeney. Lo stesso vale per quella di Addison Rae. È più il popolo di Internet, composto per metà da bot incaricati di farci arrabbiare sempre di più, ad accalorarsi difendendo la stessa ideologia sotto guise sempre diverse - domani sarà una bevanda gasata o un film Disney, il nocciolo del discorso resterà identico.

Il volume del dibattito, però, ci dice che questo pseudo-intellettualismo (per quanto si argomenti, si sta parlando di una semplice pubblicità, non di un libro o di un movimento culturale) venga strumentalizzato per distrarre il pubblico con beghe di scarsissimo rilievo. Si litiga, in breve, per quale visione del mondo sia migliore, scambiandosi insulti dato che nessuna delle parti riuscirà mai a persuadere l’altra. In un mondo neo-liberista, il vero vincitore della querelle non sarà il commentatore più intelligente o indignato ma il mega-brand che venderà più jeans. Per inciso, in questo bailamme radical chic, nessuno si è mai domandato come e dove questi jeans vengano prodotti. E non è la prima volta che il denim diventa controverso per alimentare le vendite e incidersi nella memoria del consumatore. Oltre all'archetipo della campagna di American Eagle, sempre nel 1980 fu Brooke Shields, all'epoca di solo 15 anni, a pronunciaare la frase "You want to know what comes between me and my Calvins? Nothing" in una campagna di Calvin Klein accusata di sessualizzare una minorenne e che rappresentava, in fondo, il clima di edonismo decadente e di moralità un po’ corrotta che dominava gli anni ’80. Nel '95, sempre Calvin Klein intercettò il fascino crescente del grunge e di quel senso di maledettismo che permeava il decennio, con la campagna piena di modelle e modelli adolescenti in pose suggestive ritirata dopo accuse di promuovere "heroin chic" che il presidente Bill Clinton definì "oltraggiosa". Per non parlare della serie "For Successful Living" del 1991-2000 di Diesel, creata da Jocke Jonason, che usava un’ironia sempre più caustica per sbattere in prima pagina temi come politica, religione, sessualità e razza con immagini ironiche e satiriche. 

@dv73london Addison Rae’s in new jean ad campaign #fyp #addisonraeedit #dv73world #auraarchive #visualisation #aura original sound -

Ciò di cui però ci parlano le campagne di oggi e le controversie che ne derivano è una società molto diversa da quella che Calvin Klein o Diesel cercavano di stupire e scioccare con i relativi candori e ingenuità. Le tre campagne di denim politiche di quest’estate sono state analizzate molto più a fondo e in tempo reale, sono esistite in contrapposizione l’una con l’altra e sono in fondo il prodotto di un'era di iper-connessione dove il marketing non è più solo vendita, ma generazione di un engagement che si può quantificare come una semplice percentuale ma consiste in effetti di un dibattito accesso, capillare, per certi versi anche eccessivo rispetto al loro scopo originario di generare vendite. Proprio questo dibattito ha dimostrato l’esistenza di una società frammentata, dove il consumismo si intreccia con l'attivismo  e con il rage-baiting per catturare attenzione in un'economia dell'attenzione satura. Ma ha senso dibattere tanto su ciò che è in definitiva una metafora? Proprio il dibattito su questi jeans ci dimostrano quanto sia facile fuorviare il pubblico, che si appassionerà più volentieri a discutere sulla semiotica superficiale di una pubblicità e su cosa essa dice del mondo di oggi che, ad esempio, su dove e come sia prodotto il denim di quei brand, questione la cui risposta potrebbe davvero rispondere a quale compagnia sia più “etica”. Il denim, in fondo, è solo un dito che indica la luna: un simbolo che distrae da un dibattito ideologico più complesso, fatto di capitalismo, declino dei valori culturali e ricerca di autenticità in un mondo sempre più commercializzato. Continuando a litigare sui jeans, perdiamo di vista la vera battaglia: non il tessuto, ma ciò che rappresenta e nasconde