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Ha ancora senso dare dei voti ai look delle celebrities?

Le pratiche dell’editoria riprese dalla Gen Z

Ha ancora senso dare dei voti ai look delle celebrities? Le pratiche dell’editoria riprese dalla Gen Z

Durante gli eventi più famosi legati al mondo dell'entertainment (leggi Met Gala, Grammy Awards o Festival di Venezia), le home dei giornali e magazine si riempiono di gallery in cui il più delle volte si analizzano i look esibiti da celebrities e ospiti vari. Immortalate e “brutalmente” gettate nella fossa delle pagelle sulla carta stampata del giorno dopo o di quelle più immediate sulla home del sito, le star si ritrovano marchiate dal giudizio di un editor o un giornalista che freme dalla voglia di strutturare una sua critica sotto forma di un voto a cui sarà particolarmente difficilmente sottrarsi. Il prezzo da pagare per essere famosi?

Restando in Italia, la cosa sembra essere particolarmente diffusa in alcune riviste legate alla celebrity culture e alle sue diverse accezioni. In occasione, ad esempio, della diciassettesima edizione della Festa del Cinema di Roma, testate come il Corriere, Oggi o Vanity Fair Italia ospitano una sezione specifica in cui si concentrano sull’analisi dei look delle celebrities affrontando il discorso come un percorso a ostacoli a due strade: quella ben riuscita  dei promossi e quella piena di falle dei bocciati. Il tutto, ovviamente, accompagnato dal sigillo finale: il voto. Se però questo tipo di analisi del costume sembrava passare inosservata nel corso degli anni ’90 - spopolavano concorsi di bellezza come Miss Italia, le sfilate degli angeli di Victoria's Secret o i test sulle tipologie di celeb su giornali come Cioè - la questione intorno al tema della bellezza e delle sue infinite declinazioni ha subito una sorta di rimodellamento  a livello di conversazioni, allestendo degli asset mediatici solo in parte sovrapponibili con la cultura del politicamente corretto. L’idea di siglare il look di una celebrity con un voto, in effetti, non ha stuzzicato soltanto le fantasie di una generazione come quella dei Boomers o della Gen X ma, anzi, ha finito con il trovare il consenso dei Millennial e della Gen Z che, in occasione di eventi come il Festival di Sanremo, non si è tirata indietro dall’esprimere il proprio giudizio sui look esibiti sul palcoscenico o su un photocall.

La questione di base è che in realtà questa tipologia di pratica editoriale, paragonabile a un qualunque palinsesto televisivo di costume e società, sia connessa con una forma di intrattenimento che non si prefigge nessun obiettivo se non quello di risultare a ogni costo leggeri. Che poi non ci sia il fine di avere una ripercussione sull’immagine o sulla percezione di una celebrità è diventato particolarmente tangibile nel momento in cui l’editoria e la televisione hanno perso il loro primato esclusivo a livello di coinvolgimento e interazioni. Quello che stupisce, forse, è il fatto che questo tipo di approccio non sia scomparso dalla circolazione della fashion industry (e non) quando la moda si è fatta portavoce di istanze che non riducessero le tematiche a guide how to style o che non trattassero i suoi argomenti con il solito tono civettuolo. Filone ripreso da Millennial e Gen Z e traslitterato sui social come Instagram o TikTok, quella dei “voto i look delle celebrities”, in altre parole, è una rubrica che sembra non aver subito più di tanto il fattore temporale. Se recentemente The Cut aveva stilato un sondaggio in cui chiedeva a 850 persone di vari generi, etnie ed età di identificare personalità maggiormente dotate di buon gusto - Audrey Hepburn ha raccolto il 25% del consenso - e il concetto di dress code risulta ancora vitale, la vera domanda potrebbe essere: chi decide oggi se un look funziona o meno?