
Il 2025 è stato l’anno dello “yearning” Più la Gen Z cresce, più si strugge
Yearning è una di quelle parole in inglese che non hanno una traduzione diretta in italiano: tecnicamente significa struggimento, ma con un sottotesto più profondo, malinconico, viscerale. È un desiderio che consuma, che nasce da un’assenza e diventa quasi fisico. È il sentimento che si avverte nei primi album dei The Smiths, nei film di Celine Song e Joe Wright, nei romanzi di Jane Austen. Non è solo amore, non è solo nostalgia, è qualcosa di più intimo e indefinibile, la fame di un’emozione che non trova mai appagamento.
Nel 2025, questa sensazione è diventata quasi una lingua comune per la Gen Z. Lo yearning è diventato un modo per descrivere l’aria che si respira tra i ventenni, quella tensione costante verso qualcosa che sfugge, un’ansia sottile di compimento che raramente arriva. Lo si riconosce nei personaggi che hanno popolato l’immaginario collettivo dell’anno, da Conrad Fisher di The Summer I Turned Pretty alla creatura di Frankenstein di Guillermo del Toro, tutti accomunati dalla stessa inquietudine: la speranza di essere riuniti con la propria persona amata, con una versione perduta di sé, o semplicemente con un senso di essere. È questo il nuovo leitmotiv della Gen Z, una sorta di malinconia condivisa che attraversa linguaggi, piattaforme e identità.
La viralità dello yearning
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Un sentimento che ormai si ritrova in ogni media, dalla musica, al cinema, fino ai meme. Musicalmente, la Gen Z ha riscoperto Jeff Buckley, il giovane cantautore americano che a soli 30 anni, nel 1997, ha perso la vita proprio all’inizio della sua carriera. Brani meno famosi, come Lover, You Should’ve Come Over e Everybody Here Wants You sono diventati tra gli audio più virali del 2025 su TikTok, con rispettivamente 346 mila e 82,8 mila post nella seconda metà dell’anno.
Buckley è tornato a rappresentare quella forma di sensibilità autentica e dolorosa che i social di oggi sembrano non saper più contenere: la sua voce, sospesa tra desiderio e dolore, è diventata la colonna sonora ideale per chi si sente fuori tempo, fuori luogo, ma ancora capace di provare. In maniera diversa ma parallela, tra i nuovi artisti dell’anno è emerso Sombr, classe ‘05 e speranza principale del nuovo pop maschile. Con 56mila ascoltatori al mese, Boose è considerato ormai il yearner per eccellenza della Gen Z, tutti i suoi testi parlano di amori fuggenti, rimpianti, futuri perduti, che riescono puntualmente ad andare virali grazie alla “relatability” delle canzoni.
Come la Gen Z non riesce più a relazionarsi
Logorati da un desiderio di desiderare, non tanto per qualcuno, quanto per qualcosa che restituisca profondità alle loro vite, i ventenni di oggi sembrano vocalizzare sempre di più il loro malessere interiore sui social media. Non più solo la generazione che non fa sesso, che non si diverte, che non beve, ma anche la generazione più single e più sola della storia. Una ricerca recente del Pew Research Center ha infatti confermato che il 56% degli under-30 intervistati si dichiara single e senza alcuna prospettiva romantica. Una situazione non più semplicemente preoccupante, ma quasi catastrofica se confrontata con i dati delle generazioni precedenti.
È come se il contatto fisico, la presenza, l’intimità reale fossero diventati concetti sfuggenti, elementi di un passato remoto. Forse il problema è che, finora, tutti si sono concentrati troppo sui sintomi della “relationship recession” e troppo poco sulle cause che l’hanno resa inevitabile. Come scrive Isabella Camargo su GenZine, «negli ultimi tempi la parola yearning è diventata sempre più popolare tra i giovani. È un sentimento nato in un mondo post-pandemico». Quello che descrive Camargo è un vuoto che ha preso forma dopo la pandemia, quando le relazioni digitali hanno sostituito le esperienze reali e l’intimità è diventata un concetto astratto.
Da una parte, si potrebbe dire che il ritrovato yearning generazionale non sia altro che una delle prime grandi conseguenze psicologiche del lockdown, visibili solo anni dopo la fine del Covid-19; dall’altra, forse era inevitabile, data l’essenza stessa di una generazione nata e cresciuta in un mondo filtrato, digitale e perennemente osservato e ossessionato con l'osservarsi.
Esiste anche il “performative yearning”
some of you are performative yearners but my yearning comes from a real and terrible place
— emo normie (@emonormie) May 22, 2025
Eppure, anche un’emozione cruda e nuda come lo yearning sembra essere diventata l'ennesimo atto performativo di una generazione. Come ha scritto Vishakha Punjabi su Elle India, il performative yearning è l’ennesima evoluzione del romanticismo digitale: playlist tristi da milioni di ascolti, stanze in penombra dove qualcuno si filma mentre piange e poi va virale su TikTok, board su Pinterest intitolate “us in another life”. Uno struggimento impacchettato, addomesticato dall’algoritmo, che perde il proprio centro nevralgico e diventa un effimero meme da repostare.
Come fa notare Punjabi, è qui che sta la contraddizione più profonda. La stessa generazione che brama emozioni autentiche è anche quella che più di tutte ha imparato a dissimularle, con milioni di giovani che online si dichiarano nostalgici, ma non si sa bene per cosa. È un gioco sottile di simulazione e difesa, dove la sofferenza viene esibita per sembrare vera e resa virale per non far male.
Il performative yearning è quindi una sorta di paradosso emotivo collettivo, una fame di significato che si consuma nell’atto stesso di essere condivisa. Non è falso, ma è un tentativo disperato di dare forma a qualcosa di troppo grande per restare dentro, quindi costruito in maniera esteticamente appetibile per i social. Ad oggi, definirsi uno “yearner” non è una dichiarazione di intenti, ma solo una messa in scena. Una nostalgia che ha perso l’oggetto e si è trasformata in estetica di sé stessa. Quindi anche qui, verrebbe da dire «bring back real yearning».














































