
I film ormai sono troppo lunghi Dal dominio delle serie alla libertà delle produzioni: come mai qualsiasi opera supera le due ore?
È ormai sotto gli occhi di tutti: i film, qualsiasi film, qualunque tipologia di film, durano troppo. Dramma, commedie, western moderni. Horror, biopic, talvolta persino documentari. Quello che una volta era sinonimo di imponenza e solennità, è finito per diventare la prassi in un’industria dove nulla dura meno di due ore e, a volte, anche arrivare solo a centoventi minuti sembra essere troppo poco. I festival sono il bacino in cui si concentra una tale moltitudine di minutaggi. Opere che non possono durare meno di un tot altrimenti è come non essere autori.
Anche i blockbuster non scherzano, desiderosi di dare spessore alla propria storia, quando spesso basterebbero solo velocità e divertimento. La tendenza è talmente evidente che si è arrivati ad un punto in cui se un film dura solo un’ora e mezza, facciamo anche un’ora e quaranta, viene visto come il brutto anatroccolo del gruppo. Ma non dagli spettatori, che anzi provano una sorta di sollievo nel sapere che saranno intrattenuti per un tempo probabilmente più equilibrato rispetto a quanto accade di solito.
A questo evidente cambio di marcia nel sistema di narrazioni che tende verso l’infinito c’è bisogno di ricercare una spiegazione. C’è chi in una chiave romantica potrebbe vederci il buono in questo eccesso di lunghezza: aumentare le ore di un film significa aumentare il tempo di soggiorno delle persone nella sala cinematografica, lontani dalla frenesia degli schermi del proprio cellulare, dello scrolling e dei video di una brevità che non va oltre il minuto. Sarebbe un’idea stupenda se non fosse che, la maggior parte delle volte, gli autori non si soffermano tanto al pensare al tempo di qualità che potrebbe trascorrere il pubblico, bensì solamente al fatto che non ci si vuole separare dalla propria storia.
È tutta una questione di produzione
@domischainsaw and then I just give up and sleep #letterboxd#cinephile all too well 10min version - c (taylor‘s version)
È qui che dovrebbe subentrare la figura del produttore. Sebbene sia secolare l’astio che può intercorrere tra registi e produttori, è pur vero che il mantenimento dell’equilibrio di tanti capolavori della storia del cinema è stato raggiunto proprio grazie alle decisioni di quest’ultimi contro la volontà dei primi. Non che non abbiano avuto le loro colpe. Tra i tanti basta citare le svariate versioni (attualmente sette) di Blade Runner di Ridley Scott in circolazione perché gli studios non volevano un finale funesto per l’opera cyberpunk di Ridley Scott. Ma, per rimanere in tema durata, è stata della New Line Cinema l’idea di allungare i due film della saga de Il Signore degli anelli proposti da Peter Jackson e renderli una trilogia. Una versione “theatrical” è fondamentale per la buona circolazione di un film e, per il resto, c’è il meraviglioso mondo delle direction’s cut.
Va ricordato anche che figure come Irving Thalberg, David O. Selznick o Louis B. Mayer o, per citare un nome italiano, Dino De Laurentiis non esistono più. Persino Barbara Broccoli ha preferito cedere tutti i diritti di James Bond pur di non scendere a compromessi con Amazon, la quale potrà ora fare definitivamente ciò che desidera dell’agente segreto 007. Il che porta a un ulteriore punto, tanto sulla lunghezza, quanto sulla presa odierna che possono avere i produttori. Se, un tempo, una major aveva la possibilità di investire anima e corpo in un film, oggi c’è bisogno del supporto di quante più case di produzione possibili per portare a termine un progetto.
È il motivo per cui i film durano anche quei due o tre minuti in più durante i titoli di apertura, all’apparenza pochi, ma infiniti su di un grande schermo, necessari per elencare uno dopo l’altro i vari loghi delle società. Una questione che riguarda ancor più opere piccole, europee e/o indipendenti, ma che influisce sul fatto che se un film ha più campane da dover sentire e nessuno che regge il timone, allora sarà di sicuro il o la regista a spuntarla. E non sempre, nella foga del proprio navigare, è detto che prenda la direzione giusta, che guarda caso è la maggior parte delle volte quella più lunga.
Le serie tv continuano a vincere
Bro why are kdrama episodes the length of movies pic.twitter.com/v9OlYEbZnI
— ang (@watcherandmore) January 4, 2023
Un altro fattore che potrebbe aver inciso sulla fantasia degli autori sul portare i propri racconti all’estremo potrebbe essere dettato dall’espansione del dominio delle serie tv che ha contaminato sempre di più i media e, in aggiunta, il cinema stesso, portando a sviluppare delle logiche che però tendono a dimenticare la natura di un mezzo e dell’altro. Con l’opportunità di approfondire una storia su più puntate, perfino su più stagioni se uno show raggiunge il successo necessario, il formato seriale permette una trattazione della narrazione e, in particolare, delle psicologie dei personaggi che fa sicuramente gola a coloro a cui viene detto di doversi tenere all’interno di una bolla temporale cinematografica.
E forse hanno anche ragione gli autori e le autrici quando vedono il loro lavoro prettamente dedicato per il grande schermo vanificato da premiazioni che, al loro posto, assegnano riconoscimenti a dei racconti pensati per un altro formato. È stato il caso de L’arte della gioia di Valeria Golino agli scorsi David di Donatello, sei puntate per trasporre la prima parte del romanzo di Goliarda Sapienza, passato in anteprima al festival di Cannes poi con un’uscita speciale in sala per permettere alla serie la corsa ai premi.
Forse il problema sono gli autori
Ovviamente quando ci si lamenta della troppa durata dei film non possono che saltare alla mente le parole di Mario Monicelli a cui, se qualcuno faceva notare che alcuni titoli erano belli però troppo lunghi, si domandava cosa dovessero fare le persone con quei trenta minuti in più, se per caso avrebbero perso il treno o l’appuntamento dal dentista. Ad oggi, però, quei trenta (o venti, o quindici, o quaranta) minuti in più equivalgono all’incapacità di molti autori e autrici di saper ritrovare il dono della sintesi. Del sapere esattamente dove sta il cuore del loro racconto e non avere paura di tagliare qualche ramo di troppo per il bene dell’intera operazione. Una mancanza di polso che, talvolta, può inficiare su un film.
Altre no, ma avrebbe magari asciugato un racconto che, così, sarebbe arrivato ancora più dritto allo spettatore. Si sa bene che ogni opera è come un figlio e che ogni sequenza tagliata lascia un vuoto, ma sempre meglio soffrire quel briciolo di più per poi allietare la visione degli spettatori che, ricordiamo, dovrebbero essere il principale interlocutore di un’opera, e non coloro che l’hanno creata. Una volta film come Titanic o Avatar duravano due ore e mezza (con la direction’s cut anche qualcosina di più). Ma se oggi tutti i film durano quanto Titanic e quanto Avatar allora il senso stesso di grandiosità si è perso, lasciando spazio al solipsismo. Le tre ore di Oppenheimer di Christopher Nolan non saranno né più né meno delle due ore e quaranta di qualsiasi altro biopic o dramma. Bisogna restituire valore al tempo, anche quando si tratta del tempo cinematografico.











































