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Nella lotta tra Roma e Milano, ha vinto Napoli Di Walter D'Aprile

Nella lotta tra Roma e Milano, ha vinto Napoli Di Walter D'Aprile

Nel dibattito italiano, quando si parla di “place to be”, la diatriba è sempre stata tra Roma e Milano. Due città molto diverse, che per decenni si sono contese il titolo di “capitale economica” del Paese, e con esso il futuro di migliaia di universitari, aziende, realtà creative. In termini di PIL, la lotta l’ha vinta Milano. Una metropoli piccola, un settimo di Roma per grandezza, che nonostante le dimensioni, con il tempo ha iniziato a competere con il mercato globale come Mecca creativa in uno scontro alla pari con Parigi, New York, Londra. Ma lo scontro non è mai stato davvero alla pari: il ritmo di questa crescita coatta, la risalita in sordina in una gara tra pesi massimi, ha portato la città a collassare sotto la premessa di progresso che l’aveva fatta tanto crescere.

Tra la crisi di Milano e Roma con i suoi scandali, galeotto fu un articolo del New York Times che nel 2019 descrisse Napoli come «l’altra città italiana per antonomasia». Mai abbastanza storica per competere con Roma e mai stata abbastanza funzionale per competere con Milano, negli anni la città partenopea è passata dall’essere considerata lo zimbello d’Italia, tra “Napoli colera” e Gomorra, ad essere romanticizzata. Dietro la lente di Sorrentino e i telefonini degli Yankee che la ritraggono a frotte dai battelli, alcuni direbbero feticizzata.

 


Con il boom internazionale della saga di Elena Ferrante, L’amica geniale, e la rivalsa della “vita lenta” post-pandemia, Napoli è diventata un quadretto perfetto, idilliaco per milioni di turisti. Improvvisamente, l’essenza napoletana non era più un qualcosa di cui vergognarsi, ma era desiderabile, vendibile persino. Gli stessi media che per anni scrivevano di Napoli solo per riportare tragedie, o ignoravano la città quando si parlava di cultura in Italia, ora scrivono del territorio, del suo folklore, parlano di “riscatto napoletano”.

Il Post, citando Roberto Napoletano, ha parlato di «cambio di paradigma», con il direttore de Il Mattino che ha sottolineato come ora Napoli sia passata dall’essere sinonimo di accidia e altri peccati capitali a «città-mondo di grande cultura che traina la rinascita economica del Mezzogiorno e attira capitali e turisti». Anche Rivista Studio, in occasione della sua nuova edizione “Gran Turismo”, ha parlato di come all’inizio degli anni 2000 ai napoletani del turismo non importava niente, anzi «chi quindici anni fa li avrebbe rapinati è pronto ad affittargli casa». Ma forse, tra tutti, l’apoteosi dell’interesse performativo l’ha raggiunta Vogue Italia, che nell’agosto 2021 è uscita con The Napoli Issue, un racconto superficiale fatto di dicotomie e superlativi. 

@nssmagazine Napoli #nssx #napoli #aesthetic #naples #italy #mare Tienaté - Nu Genea

In fondo, però, questa narrazione di Napoli, spesso fatta da chi la conosce da fuori, che la trasforma ora in paradiso lento, ora in laboratorio creativo, ora in marchio turistico, mette a nudo un punto cruciale: il problema non sono tanto le città in sé, quanto le narrazioni che noi costruiamo attorno ad esse. È una questione di rappresentazioni, ma soprattutto di relazioni. Perché una città non è solo un insieme di strade, palazzi o monumenti, è il modo in cui la viviamo, le domande che le poniamo e le risposte che essa ci restituisce.

Lo ricordava già Italo Calvino ne Le città invisibili, sottolineando come la considerazione positiva o negativa che abbiamo di un luogo dipenda dalle risposte che quel luogo sa dare alle nostre esigenze nel presente. Per anni, basandoci sul modello dell’egemonia socio-culturale americana, abbiamo sognato, infatti, strade larghe ma popolate da grattacieli, tanto in alto da coprire il cielo. Succede poi che questo modello a scalini, a piani verticali per raggiungere l’apice della società, crea malcontenti, o meglio accentua il malessere di chi non riesce a far parte del grattacielo, estromettendolo.

Nella lotta tra Roma e Milano, ha vinto Napoli Di Walter D'Aprile | Image 577938

Quindi, se oggi Milano è la città verticale per eccellenza, la sua antitesi, il rovescio della stessa medaglia, seppur con le sue infinite contraddizioni, è Napoli: una delle poche città che ci permette di sognare una società orizzontale. Non solo in termini urbanistici, ma orizzontale nella maniera in cui la città si può allargare, si può aprire, sognando di diventare inclusiva e far dialogare le varie classi che la vivono giorno dopo giorno. Napoli, seguendo inconsciamente il modello milanese, oggi è diventata un brand.

Come parliamo di "Ti odio Milano Ti amo", come parliamo di NoLo per indicare Loreto Nord, parliamo di brand Napoli. Parliamo di "J’adore Napoli", ovvero di un sogno di vita pseudo-lenta che mette al centro della stessa i valori umani prima di quelli performativi. Ma tali valori, che sembrano essere il motore della rinascita partenopea, devono diventare catalizzatori per i ricchi, ricchissimi, affinché investano sulla città e creino finalmente quel moto di capitale perpetuo che faccia sì che i giovani meridionali, invece di trasferirsi altrove, possano restare a costruire la Napoli del futuro. Questo, il Comune e le istituzioni lo sanno e cercano di metterlo in pratica ogni giorno. E sicuramente la Coppa America del 2027 sarà un grande banco di prova per vedere se il modello di città orizzontale che Napoli porta avanti, in maniera quasi inconsapevole, strizzando l’occhio agli errori di Milano, che paga un po’ il peso di essere stata la prima della classe.

@risoespaghetti

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Infatti, il problema non è Milano che si verticalizza, ma è la città che si dimentica di essere anche orizzontale, di allargarsi e di portare non solo i palazzi ma la vita nelle parti lontane dal centro. Il Comune lo sa e continua a farlo, ma gli industriali, i ricchi ricchissimi, meno, perché il giovedì sono già fuori dalle mura della loro stessa città. Ecco, infatti, il vero problema di una città come Milano o delle metropoli, così come sono state disegnate, è che dal giovedì iniziano a spopolarsi. Perché i ricchi, i nuovi ricchi e i ricchissimi - coloro che questa città verticale l’hanno voluta costruire - sono poi i primi a scapparsene in villeggiatura quando diventa invivibile. Non dalla città in sé, ma dall’immagine della città che loro stessi hanno creato.

Della Milano sospesa del Covid, che era lì a discutere se ripartire al ritmo incessante a cui era stata abituata o darsi un freno, ci è rimasto solo un catulliano odi et amo. Quello che era stato il regno delle possibilità, oggi sembra essere diventato il regno del disincanto urbano, figlio di una borghesia capitalista che vuole andare oltre le proprie possibilità, inseguendo i ricchi ricchissimi e rischiando di sparire appresso a loro. Ma Milano non va demonizzata. Le sue fragilità sono più profonde e visibili delle contraddizioni, vanno vissute e sanate. Milano fragile è una città troppo alta, che vedi dagli aerei ma non vivi nelle strade. Ma se ritorneremo per strada, alla ricerca dei terzi luoghi, di un'umanità che ci siamo persi nella foga di costruire, potremmo risalire nuovamente e realmente abitare i piani alti.

Come se fosse un brand, la metropoli deve essere da una parte appetibile per gli investitori ma dall’altra anche vicino alle necessità dei propri consumatori, in questo caso i cittadini. In entrambi gli scenari, chiaramente, ci sono i loro pro e contro, i loro errori e pregi, che vanno messi in discussione e portati avanti in un dialogo che tenga conto, in primis, dei bisogni della community. Per raccontarla meglio, dovremmo immaginare un sistema di assi cartesiani: un piano di riferimento dove, sulla linea orizzontale delle ascisse, abbiamo Napoli, e su quella delle ordinate, l’asse verticale, abbiamo Milano.

E dovremmo qui pensare a sistemare in maniera critica ma costruttiva, tenendo conto degli spazi a disposizione, le varie community. Tenendo conto che tendere maggiormente a Napoli significa accettare le fragilità di Milano, e tendere invece maggiormente a Milano significa accettare le contraddizioni di Napoli. Quindi è chiaro che se non ci sono contraddizioni non ci sono fragilità. Ma senza le contraddizioni non saremmo esseri umani. Proprio perché sono cambiate le nostre domande, abbiamo bisogno di nuove risposte, che possono essere solamente figlie di questo modello ibrido: sì, verticale, ma soprattutto orizzontale.