A Guide to All Creative Directors

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Senza "Twin Peaks" non avremmo le serie TV che conosciamo

A 35 anni dalla messa in onda la serie di David Lynch rimane un cult

Senza Twin Peaks non avremmo le serie TV che conosciamo A 35 anni dalla messa in onda la serie di David Lynch rimane un cult

Nel 1990, la televisione e il cinema erano due mondi separati, che raramente si incontravano. La TV era principalmente uno strumento di intrattenimento e informazione: con le soap opera, milioni di persone si ritrovavano passivamente davanti allo schermo, seguendo trame infinite e ripetitive, con personaggi spesso intercambiabili; con i telequiz, il pubblico si divertiva a seguire giochi e premi in denaro, mentre l’informazione era affidata ai telegiornali e ai dibattiti dei talk show. Il cinema, al contrario, era considerato la settima arte: un’espressione di narrazione, invenzione, linguaggio. Se il cinema era intellettuale, la televisione appariva triviale. Tutto questo fino al 1990, quando David Lynch – già affermato come uno dei registi più acclamati di Hollywood grazie a film come Eraserhead, Dune, The Elephant Man e Velluto Blu, e vincitore nello stesso anno della Palma d’Oro a Cannes con Cuore Selvaggio – decise di reinventare la serie TV, ponendo le basi della serialità contemporanea e anticipando molte delle caratteristiche che oggi riconosciamo nelle serie di maggior successo. 35 anni fa, l’8 aprile del 1990 andò in onda l’episodio pilota di Twin Peaks. E già dalle prime note del Twin Peaks Theme di Angelo Badalamenti si capì che niente sarebbe stato più come prima.

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Twin Peaks rappresentò uno spartiacque nella storia della televisione, non tanto perché influenzò direttamente le serie successive (Lost avrebbe avuto lo stesso impatto senza il surrealismo e l’elemento sovrannaturale della Loggia Nera?), ma perché, come osserva il critico John Powers, «rivelò le potenzialità del prodotto televisivo». La serie contribuì a consolidare elementi che oggi consideriamo fondamentali per la narrazione seriale: la coesistenza tra trama verticale (episodio per episodio) e trama orizzontale (a lungo termine), la complessità psicologica dei personaggi, la cura per fotografia, montaggio e colonna sonora, e soprattutto la costruzione di un immaginario forte, fatto di luoghi e figure memorabili. In altre parole: senza Twin Peaks, non ci sarebbero stati Lost, Breaking Bad, True Detective e molte delle opere più rilevanti del piccolo schermo. Le prime due stagioni della serie, andate in onda tra il 1990 e il 1991, si compongono di 30 episodi creati da Lynch in collaborazione con il produttore Mark Frost. L’episodio pilota fu un successo straordinario: 32 milioni di spettatori negli Stati Uniti, attratti dalla miscela di generi che i due autori avevano saputo orchestrare. L’intera serie è infatti permeata da un senso di ambiguità e doppiezza, con uno stile che mescola soap opera, noir, horror e una forte componente sovrannaturale e surreale.

Il protagonista, l’agente speciale dell’FBI Dale Cooper, interpretato da Kyle MacLachlan, arriva a Twin Peaks, una cittadina al confine tra Stati Uniti e Canada, per indagare sull’omicidio di Laura Palmer, una delle ragazze più amate della scuola, figlia di una famiglia rispettabile, ritrovata morta e avvolta in un telo di plastica nei pressi di un lago. Nel corso dell’indagine, Cooper  entra in contatto con gli abitanti del paese, le cui vite si intrecciano in una rete sempre più fitta e inquietante, tra atmosfere oniriche e surreali: nani e giganti, una donna che comunica con un ceppo, gufi misteriosi, operai di fabbrica, adolescenti anni ’90 che danzano su musiche jazz anni ’50, situazioni comiche come le visite nella cittadina del capo di Cooper, il direttore Gordon Cole, sordo e costretto a urlare, interpretato dallo stesso Lynch. Un’intera generazione è cresciuta aspettando il giovedì sera, coinvolta in uno dei tormentoni più celebri degli anni Novanta: “Chi ha ucciso Laura Palmer?”. La risposta a questa domanda arriva dopo poche puntate della seconda stagione, contro la volontà di Lynch e Frost, costretti dalla rete ABC a rivelare prematuramente l’identità dell’assassino. Questo stravolgimento causò un calo negli ascolti, solo in parte recuperato con l’ultima puntata della stagione, andata in onda il 10 giugno 1991: uno dei manifesti più puri del linguaggio lynchiano.

Ma quella non fu davvero la fine. Venticinque anni dopo, proprio come annunciato nell’enigmatico e profetico finale della serie madre («I’ll see you again in 25 years»), nel 2016 arrivò una terza stagione, composta da 18 episodi scritti nuovamente da Frost e Lynch, e diretti interamente da quest’ultimo. Il risultato fu un’opera d’arte a tutto tondo: stilisticamente, registicamente e attorialmente straordinaria, con pochi paragoni possibili nella storia della TV. La terza stagione riprende alcune delle trame interrotte nel 1991, ma lo fa con un rigore artistico che rifiuta qualsiasi compromesso con le logiche del mercato. Pochi gli  ammiccamenti ai fan, nessuna risposta scontata: solo il desiderio di Lynch e Frost di continuare a esplorare nuovi linguaggi e strutture narrative. Perché se 35 anni fa Twin Peaks ha inventato la serie TV come la conosciamo oggi, con il sequel del 2016 i suoi creatori hanno dimostrato di poterla ancora una volta destrutturare, rivoluzionare e trascendere.